Trent'anni dall'Ottantanove/3
Il Muro e la Pace
Protezione antifascista oppure emblema della tirannia comunista? O tutt’e due? Chi va a Berlino oggi cerca ancora una scheggia, una reliquia, una finta pepita per ricordare uno degli eventi più emblematici nella storia dell’umanità
Muri. Muri che dividono, che delimitano confini. Muri che tengono lontani i nemici. Muri che uniscono, che fanno sognare. Un muro fatto di verde, una siepe che “da tanta parte/ dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”: solo quando salii sino al Colle leopardiano dell’Infinito, capii che dall’altra parte si potevano vedere davvero spazi interminati, percepire silenzi sovrumani, e provare con tutti i sensi una profondissima quiete.
Muretti a secco, minuziosamente predisposti da mani che sanno impilare sassi e pietre coesi, resistenti e immobili nella loro perfezione, sassi stretti e contigui che non lasciano spazio al respiro, oltre i quali guardare il mare. Autentiche opere d’arte.
Muri che possono unire, muri sui quali disegnare con tutti i colori del mondo e lasciar correre la fantasia, diffondere messaggi a chi passa e legge. Muri con bambole appese, manichini di stoffa afflosciati, a ricordarci le orribili ferite e mutilazioni contro le donne, i femminicidi, a perenne memoria, sotto le intemperie delle stagioni.
Il muro imploso, lo squarcio, la ferita nel muro alla stazione di Bologna, una sorta di stupro drammatico, di violenza contro la vita, dove il tempo si è fermato per sempre, e i nomi incisi delle vittime sembrano formiche che lo percorrono, nomi da accarezzare, nomi da non dimenticare.
Il Check Point Charlie a Berlino, con il suo lasciapassare per turisti e stranieri, un luogo da vedere, anche inconsapevoli di che cosa sia stata la “striscia della morte”, di quanti prigionieri e soprattutto quante vite spezzate di giovani, vecchi e bambini che hanno provato ad attraversare una barriera. Un muro simbolo della Cortina di ferro, della guerra fredda. Protezione antifascista oppure emblema della tirannia comunista? O tutt’e due? Chi va a Berlino oggi cerca ancora una scheggia, una reliquia, una finta pepita per ricordare uno degli eventi più emblematici nella storia dell’umanità.
E quando il muro è stato abbattuto, trent’anni fa, e i volti si sono finalmente guardati – dall’una e dall’altra parte, occhi dentro occhi – che cosa abbiamo provato? Abbiamo esultato, pensando che da quel momento forse qualcosa nel mondo poteva cambiare per sempre?
Nel 1961, quando fu eretta quella barriera di cemento, ero una bambina, ignara, indifferente. Nel 1989, quando il muro è crollato, ho provato una gioia condivisa con molti, con tutti. Mio figlio aveva sei anni: come raccontargli che – fra le innumerevoli vittime – un bambinetto di sei anni ci aveva lasciato la vita, innocente come tutti i bambini del mondo che continuano a subire violenza e stragi dalle guerre di adulti in preda alla follia?
Ho cominciato a ragionare sui “muri” quando ho letto il bel libro di Michela Monferrini, Muri maestri (La Nave di Teseo, 2018), che oppone ai muri divisori i muri che uniscono. Tra quelle pagine, una frase di Calvino, ritrovata ed estrapolata dal Barone rampante, il mio racconto preferito, suggeriva: «Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori». Il che si applica alla storia, anzi alla Storia che non conosce soste e macina orrori, pur se gli uomini fanno di tutto per non dimenticare, per non distrarsi, per essere individui a volte onorevoli. Ma si applica anche ai sentimenti privati, quando si alzano barriere e le persone si comportano fra loro come lupi, persino nelle coppie, tra un uomo e una donna.
Il muro di Berlino aveva fatto cadere nella disperazione famiglie e amici destinati a perdersi, a separarsi – disumanamente, lungamente. Un inutile pedaggio di dolore, al quale opporre un unico, elementare pensiero, sempre: “Niente più guerre. Niente più muri”. Il mondo dovrebbe restare unito, non si dovrebbero commettere crimini atroci, alimentare odi razziali, superstizioni politico-religiose e fanatismi dovrebbero essere spazzati via. Eppure la guerra torna, ovunque, si ripresenta, si ripete. La Pace è impossibile, dovunque.
Cesare Zavattini ha dedicato quattro decenni della propria esistenza a battersi per la Pace. Instancabile, ha lanciato appelli a Tutti, per non far tornare le bombe, i muri, i passi dei tedeschi. “Considerate se questo è un uomo”… ammoniva Primo Levi. Parole come Pace, libertà, democrazia, dignità, coscienza, rivoluzione, civiltà, sono state pronunciate invano, da Gandhi, da Martin Luther King, da Nelson Mandela, e prima ancora da Kant, da Voltaire. Dal grande Tolstoij. La Pergamena del Premio Internazionale della Pace, conferito a Za nel 1955, con la colomba della Pace disegnata da Picasso, recita: «In considerazione dell’alto contributo con la sua opera recato alla causa della pace e dell’amicizia fra i popoli». Oggi, chi è ancora disposto a battersi per tutto questo, anziché costruire muri?