Danilo Maestosi
Al nuovo Musja di Roma

L’arte della paura

Quante delusioni dalla mostra curata da Danilo Eccher e dedicata al buio e alla paura? Quasi sempre, ormai, la provocazione (e lo spettacolo fine a se stesso) sovrastano la ricerca artistica

Luce e ombra. Il continuo intreccio di spinte contrapposte, alternanze di senso, scoperte e smarrimenti che segna la condizione umana è il leitmotiv della mostra «Chi ha paura del buio?», ideata da Danilo Eccher, critico e curatore d’arte contemporanea di lungo corso, per celebrare la trasformazione del Musja, il centro culturale, aperto da Ovidio Jacorossi nei piani bassi della sua abitazione romana, in via dei Chiavari, in un vero museo. Scompaiono la vineria e le cucine del ristorante da gourmet che in partenza avrebbero dovuto procurare nuovi visitatori o accogliere in un clima più disinvolto e conviviale quelli attirati dal richiamo della ricca collezione del secondo Novecento, che Jacorossi aveva costruito negli anni del boom dell’azienda di famiglia con passione, competenza e rigore. L’idea, in un quartiere, quello alle spalle di Campo dei Fiori, invaso da locali invasi da una movida distratta e chiassosa, era troppo sofisticata, non ha trovato in Campidoglio sponda adeguata e non ha funzionato. E da buon imprenditore Jacorossi ha deciso di cambiare, ritoccando in Musja il logo del centro e tornando a rimettere al centro i gioielli della sua raccolta per farli dialogare a rotazione in modo più sistematico e aggiornato con altre opere d’arte portate in scena con un cartellone mirato di mostre a tema.

Come appunto quella firmata da Danilo Eccher, puntata iniziale di un ciclo in tre capitoli dedicato alle nostre paure, vere e prefabbricate, specchi attualissimi di un’epoca in piena crisi d’identità e di valori. Prima tra tutte, la paura ancestrale del buio, passaggio obbligato d’iniziazione dell’anima e della mente con cui, ci piaccia o no, dobbiamo fare i conti. Ce lo spiegano con variegata ricchezza d’approcci e di suggestioni i testi in catalogo: oltre alla presentazione del curatore, gli interventi di uno psicanalista, Eugenio Borgna; un esperto di tecnologie e nuovi orizzonti digitali, Mario Rasetti; un filosofo, Federico Vercellione; e persino un raffinato teologo come il cardinale Gianfranco Ravasi. Chissà quali altre visioni, quali altre emozioni, potranno aggiungere e regalarci gli artisti, lavorando su questo materiale così stimolante? Tanto più con questo cast così titolato: un paio di superstar e per il resto tutte firme d’alta classifica.

E invece il risultato, per quanto divertente, è complessivamente deludente. Molto al di sotto delle attese generate da un sceneggiatura sulla carta così intrigante e accurata. Perché molte delle opere in mostra si fermano alla superficie e non riescono a raggiungere la ricchezza di sfumature, la profondità della sceneggiatura scritta. Un po’ è l’ambientazione scelta dalla regia per adattarsi al labirinto vincolante di corridoi, piccole rampe, stanze anguste che porta verso l’anello dei sotterranei del Musja. Un alternanza di penombra e sprazzi improvvisi di luce che strizza l’occhio alle atmosfere dei tunnel delle streghe dei lunapark d’una volta.

Indovinato il prologo: il tedesco Gregor Schenider ci immerge nel cuore di tenebra di un museo devastato dal fuoco, alle pareti si intravedono appena i resti di alcune tele bruciate. Poi però lo spettacolo precipita di colpo nel kitsch, perché ad accoglierci aldilà ci sono i mascheroni dell’inglese Monster Chetwind, un pipistrello col muso porcino che domina in rilievo il centro di una grande tela, e poi la bocca spalancata di una sorta di orco sdentato  che con le sue chele incornicia come nel parco di Bomarzo una porticina d’ingresso. Come si può immaginare di distillare paura e riflessioni sulla forza oscura delle tenebre, con questi fantocci sgraziati, con questi incubi che non strapperebbero un brivido neppure a un bambino? Ma un sorriso lo provocano, e forse basta così. L’arte come gioco d’intrattenimento, a fior di pelle: è la formula su cui ormai sono incentrate molte rassegne internazionali come la Biennale di Venezia.

A fine percorso le opere che, rimanendo ancorate al tema di partenza, ti ridestano dentro qualche domanda in più sono davvero poche. C’è la intensa istallazione di Christian Boltanski: uno schermo che cala giù dal soffitto e imprigiona in un fantasmatico bianco e nero il frenetico frullar d’ali e la folle danza di vita e di morte di una nuvola di libellule. Peccato manchi spazio per isolare la visione, che mal si presta ad uno sguardo mordi e fuggi. C’è l’altare di Hermann Nitsh cosparso di tracce scure di un rito macabro che lì si è consumato. Ci sono le bambole elettroniche di Tony Oursler che il gioco dei proiettori anima di sorrisi ghignanti, di smorfie che increspano la carne calando già da un orecchio. Incubi splatter, ma almeno degli incubi veri, feroci come le fantasie maligne dell’infanzia.

Il resto sono esercizi di scenografia, disciplina che l’esercito di traslocatori di oggetti generato dalle malintese profezie di Duchamp ha invaso e inflazionato. Fraintendendone i limiti perché la scenografia può davvero raggiungere le punte del sublime, ma nei confini del teatro, da cui proviene: non è arte autosufficiente, funziona a sostegno di una regia e di un testo. Mentre molti autori di oggi, incalzati dall’urgenza di fare spettacolo e dilatare la scala dei propri interventi, la praticano a prescindere. Ecco così in mostra l’italiano Flavio Favelli, abituale frequentatore di ribalte internazionali, fare sfoggio della sua indubbia vocazione di rigattiere, pescando un grappolo di lampadari di finte candele inizio Novecento che fa penzolare dal soffitto a segnalarci, credo, l’artificio che spesso anima il trapasso tra il buio e la luce. È passato un secolo da quando l’avanguardia Dada ha sdoganato i cimeli e l’arte del trovarobato. Possibile non ci si accorga che questa pratica di trasformare gli oggetti in feticci di un possibile altrove ha finito per inchiodare l’arte alla dimensione riduttiva e lineare del colpo d’occhio e il visitatore delle mostre al ruolo di spettatore passivo? Possibile che si continui a tollerare l’abuso della ripetizione, la condanna al già visto che allontana, se non rimuove del tutto, sorpresa e partecipazione? Sono molte le immagini che sanno di vecchio riusato, in questa mostra. Come quella poltrona incassata in una nicchia nel muro, in penombra a suggerirci che sa di tenebra anche l’esercizio del potere. Omaggio probabilmente mal scelto al gusto provocatorio di un artista premiatissimo, come James Lee Byars, morto venti anni fa e specializzato in spaesanti interventi d’arredo. E quanti fili come quelli che penzolano qua e là nell’istallazione di Sheela Gowda dovremo ritrovarci di fronte per l’ennesima volta a simulare l’oscura strategia del ragno, il complotto oscuro del buio? Neanche Gino de Dominicis, talento dell’arte concettuale d’altra generazione prematuramente scomparso, sembra raccapezzarcisi, congedandosi a fine mostra con una figura senza occhi che ci fissa dalla penombra con un gigantesco naso alla Pinocchio, maschera inquietante delle infinite bugie di cui l’arte si nutre.

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