Al Chiostro del Bramante di Roma
Da Bacon a Freud
Una mostra riunisce le grida di Francis Bacon e Lucian Freud: un occhio disperato sui limiti della figurazione in un tempo in cui la pittura sembrava voler rinunciare a se stessa. E invece con loro (e la "scuola di Londra") l'uomo ferito tornò in primo piano
Francis Bacon e Lucian Freud. Due geni che hanno lasciato un’impronta inconfondibile e profonda nella cultura visiva del Secondo Novecento. Condividendo sulla stessa ribalta, la Londra del dopoguerra in continua trasformazione: umori, discussioni, trasgressioni, cadute, baldorie. E inseguendo con straordinario successo da postazioni diverse lo stesso traguardo: riscrivere in modo radicale le regole della figurazione. Centinaia di esposizioni in tutto il mondo. Eppure è raro vederli rivisitati insieme, due facce di un analogo viaggio nell’inferno del proprio tempo. A Roma addirittura la prima volta. Una novità che dà richiamo da evento alla mostra, appena inaugurata e in cartellone fino al 23 febbraio al Chiostro del Bramante. Mostra impreziosita da un secondo colpo d’ala della curatrice, Elena Crippa, che sfruttando un generoso prestito della Tate Gallery, per cui lavora, estende lo sguardo ad abbracciare altri quattro artisti della stessa generazione, compagni di strada e di esperienze creative, attirati nella capitale del Regno Unito e poi nella stessa orbita da provenienze diverse.
Bacon(1909-1992) arriva quindicenne in Inghilterra da Dublino, Lucian Freud (1922-2011) ci si rifugia dalla Germania per sfuggire alle persecuzioni del nazismo. Lo stesso succede pochi anni dopo a Frank Auerbach (1931); Michael Andrews (1928-1995) è norvegese e incontra Freud, suo professore alla scuola d’arte, stesso percorso di formazione di Paula Rego, la più giovane, oggi ottantaquattrenne, che approda là dal Portogallo; l’unico che sia nato in Inghilterra è Leon Kosssof (1926-2019), che è però figlio di due ebrei russi. Lungo il percorso, foto che li ritraggono insieme, al tavolo di un pub o un vernissage, e qualche stralcio di lettera o intervista che attesta scambi, amicizie, testimonianze di frequentazione e di stima professionale più intense tra alcuni di loro.
Scuola di Londra, li battezza il sottotitolo della mostra. Con una approssimazione che trapianta, ammiccante, Oltroceano la stessa etichetta usata per gli artisti coevi che calcavano il palcoscenico concorrente di New York: quella ragnatela di conoscenze, incontri, motivazioni non fu mai davvero una scuola. Ma un’impostazione comunque accettabile, perché, al contrario delle pratiche comunicative del sistema imperante, la ricostruzione di qualunque fase della storia dell’arte non si lascia racchiudere nella mitologia narrativa di primattori isolati, ma acquista identità e spessore solo attraverso la registrazione della trama fitta di rapporti, influenze, conflitti e condivisioni che regola la vita vissuta di chi produce arte e così cavalca l’onda e lo spirito della propria epoca.
Coerente con queste premesse è il prologo della mostra, sgranato nelle piccole salette d’ingresso, che mette subito a confronto una piccola campionatura di opere. A documentare la linea di ricerca che accomuna questi pittori londinesi: la filosofia dominante è l’esistenzialismo, un rifiuto d’assoluto e un senso del tempo su cui pesano evidenti le cicatrici della guerra e dell’immediato dopoguerra, ma anche i fermenti trasgressivi dei decenni successivi, un concentrarsi sulla figura umana partendo dal proprio vissuto e dalle proprie emozioni che rifiuta il compromesso dei codici tradizionali, inseguendo e cercando di dare forma a un magma interiore suggerito dall’alchimia stessa del dipingere o disegnare, senza rifugiarsi nel narcisismo dello sfogo autoreferenziale. Tutti comunque a caccia dell’invisibile. Ecco il Freud degli esordi che lo traduce in un distacco quasi surreale di un ricamo sottile e calibratissimo di linee e di punti, che per abbandonerà per sperimentare e sprigionare la forza dionisiaca della pittura: indimenticabile e inquietante quel volto di Narciso, inchiostro su carta del 1948,che precipita nell’abbraccio capovolto e sghembo del proprio riflesso.
Ecco il tormento, la frustrazione del fissare in un segno un tempo di vita che ti muore ogni secondo davanti, che traspare da una testa di Auerbach anni cinquanta: carboncino e pennello si rincorrono in un fare e disfare che macera la carta, la riempie di sbafature e rattoppi, la figura come una statua esposta al martirio di un vandalo. Ecco il delirio di forza e impotenza di una testa di Kossuth, ridotta a fasci convergenti e divergenti di strusci di carboncino, che avvolgono i tratti in una sorta di sudario disfatto da mummia. Ecco Francis Bacon presentarsi con un piccolo olio su tela, trasposizione di una foto della maschera funebre di William Blake, le labbra increspate in un ghigno, la pelle che si sfalda in un sovrapporsi di pennellate bianche e pastello , anticipando quegli sberleffi alla morte che saranno uno dei leit motiv preferiti dei suoi quadri, quel disfarsi della realtà prendendone distanza per raggiungere l’altrove di un grido, di un destino sfregiato.
Tra tutti Bacon è quello esprime la visione più radicale. Lo si capisce attraversando e mettendo a confronto i piccoli siparietti che la mostra riserva agli altri autori del gruppo. Michael Andrews resta comunque imprigionato dalla fascinazione dei corpi e delle figure, che trascina entro contorni spaziali bizzarri ma netti come cornici. Paula Rego si affida alla forza straniante di elaborate coreografie, nella quale i corpi assumono contorni di bambole, pose stereotipate. Leon Kossuth insegue con vigore espressionista la concitazione del segno. Frank Auerbach consegna la sua lettura del tempo ad impasti densissimi di colore che posa sulla tela, poi raschia via, poi torna ad accumulare in vortici che si aggrappano agli equilibri di segni e geometrie incisi come solchi su quella masse galleggianti di materia pittorica.
Tutti più o meno si ancorano al filo d’Arianna di un racconto. Francis Bacon si limita a dire e a dirsi, graffiandoci lo sguardo con le parole che gli sgorgano dentro come sussulti di carne ed emozioni, riflessi rivomitati e liquefatti del mondo esterno. «Quello che voglio fare è distorcere la cosa ben oltre l’apparenza – ci spiega lo stesso Bacon – ma, nella distorsione, restituirla come un documento dell’apparenza». Per distorcere la realtà il pittore irlandese se ne allontana, la circoscrive. Per questo tutte o quasi le sue opere non sono realizzate in presa diretta. Bacon non mette mai in posa le persone e i personaggi che ritrae, ma lavora su fotografie e riproduzioni. Sulla memoria dunque: ecco il volto d’un uomo il volto quasi risucchiato da un grido, immagine che lui stesso confessa di aver rubato ad un film, è l’eco del grido della donna della Corazzata Potemkin che vede il figlio rotolare giù dalla scalinata verso le file dei soldati che stanno salendo. Bacon non dipinge en plein air, neanche quando ritrae il suo amante seduto sulla panchina di un parco, il volto risucchiato in una sorta di buco nero. Mai un’immagine fissa nei suoi quadri, solo una dirompente ondata di sensazioni in movimento che piega la carne e i tratti in sfocature che si increspano nella vertigine di una dissolvenza.
Esemplare la tela che blocca l’immagine di un cane in un una traccia che si arrotola su se stessa perdendo contorni come negli esperimenti fotografici di Muybridge. Le figure come icone in fuga, da se stesse e dall’autore che ne sta imprimendo l’impronta sulla tela, consapevole di una sfida impossibile, già persa in partenza. L’unico modo di trattenerle, dare testimonianza del loro apparire, è isolarle: quelle gabbie geometriche, solo poche sottili pennellate di bianco, che tornano in tutti o quasi i suoi quadri, oppure quel recinto a spirale che circoscrive il ritratto di un uomo su una sdraio contro uno schermo nero. Contro la tirannia dell’apparenza anche i colori, quei rosa improbabili e sfarinati, quei blu smaglianti, quegli impasti di sabbia e pigmenti.
A chiudere la mostra l’altro corposo, capitolo dedicato a Lucian Freud. Un grande maestro di crudeltà, come Bacon. Ma un traguardo di sconsolata e inquietante teatralità raggiunto con metodo opposto, raddoppiando l’intensità, il peso carnale dell’evidenza. Un approccio alla realtà cui giunge però solo negli anni settanta, abbandonando lo stile compassato, ermetico, i colori e le atmosfere cipriate degli esordi, per un repertorio di nudi senza veli che gli ha consegnato corona e fama di Gran maestro del Novecento. Due grandi tele catturano in particolare l’attenzione. Una, datata 2004, è un ritratto del suo amico David Dawson insieme al suo cane. L’uomo è sdraiato sul letto senza abiti, il sesso ben in vista, come i peli che coprono il corpo. L’immagine trasuda un calore e un affetto animalesco. La seconda, datata fine anni ’80, ritrae una modella, anch’essa nuda, in piedi contro una catasta di drappi e lenzuoli sporchi, le pezze con cui deterge i suoi pennelli. Una Venere degli stracci. Ma è una Venere con le gambe arrossate, i muscoli flosci, le pieghe dell’età rese con pennellate dense, grumi sulla pelle, e quello sfondo che la circonda è un mosaico di macchie e di umori, impietoso come una lavagna del tempo.
A questi due capolavori rende omaggio un filmato girato da Enrico Maria Artale per l’occasione. Splendide sequenze, fedelissime agli originali, alternate da un coro di volti ritagliati a sprazzi nel buio, che riportano echi dei ritratti di Bacon. Cinema di qualità, eppure non c’è un’immagine che possa reggere il confronto con quelle tele. È il mistero inarrivabile della grande pittura, quel flusso che unisce in uno stesso respiro il pennello e l’intenzione che lo guida con le voci che risuonano dentro. Un incantesimo che da voce all’invisibile.