L'epopea degli italiani d'Argentina
Quelli del Boca
Una storia di emigrazione, passione e nostalgica. E di sport, tifo e calcio. Insomma: la storia del Boca Juniors, la squadra-mito di Buenos Aires intrisa di memorie italiane (non solo ora che ha accolto da campione Daniele De Rossi). Ricostruiamo la sua leggenda
L’arrivo di Daniele Rossi al Boca Juniors ha riacceso i riflettori sulla storia dei xeneises, il club più italiano del Sud America. E il saluto dei tifosi (“Bienvenido tano!”) ha riportato a galla la vicenda di una squadra di calcio fondata da pochi emigranti, in gran parte liguri, che è diventata una delle società sportive più titolate del pianeta. Ecco la storia della sua nascita.
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Nell’aria si annusava un forte odore di fainà, diffuso delle spire del vento e trasportato dai cirri di fumo. Il dondolio delle navi formava un rumore costante di sbattere di alberi, drizze, scotte e moschettoni. Gli ambulanti di frutta e verdura gridavano i prezzi di giornata. Su una parrilla improvvisata un operaio stava preparando un asado per un gruppo di edili con la faccia intrisa di calce. Uno strillone vendeva giornali in lingua italiana. I carbunin dal volto segnato da strisce nere si pulivano le mani sui loro pantaloni stinti di color indaco, che un giorno avrebbero assunto il nome di blue-jeans, da bleu de Gênes.
I ragazzi attendevano che transitasse il tranvai e quindi riprendevano a giocare a calcio, una sfera di cuoio bozzuta, sgonfia e con i lacci molli. Appena la palla si allontanava dall’improvvisato terreno di gioco, segnato da pietre rubate ai cantieri, quei giovanotti correvano dietro bande rivali che fuggivano con l’agognata preda. Ci volevano ore e lunghe trattative, talvolta, per tornarne in possesso magari in cambio di una fionda o un sigaro.
La sera, quando anche i traghettatori del Riachuelo, smettevano di fare la spola tra le due rive di quell’infimo fiumiciattolo, scolo di tutti i rifiuti della Boca, i ragazzi tornavano nelle loro case basse, a un piano, prive di luce e servizi igienici, con un rivolo davanti alla porta dove scorrevano le fogne. Ogni tanto, nelle domeniche di festa, dopo messa, ringraziata la Madonna della Guardia, in qualche slargo polveroso di questo suburbio urbano diversi gruppi organizzati praticavano quello strano gioco introdotto dai marinai inglesi locos. Quelle prime formazioni di monelli di strada si chiamavano Defensores de la Boca, Santa Rosa, la Rosales, nel nome di una corvetta naufragata. Il River Plate nacque il 25 maggio 1901, nello stesso quartiere della Boca, dalla fusione del Santa Rosa e de La Rosales. Confuse nuvole di polvere assemblavano i contendenti che sbucavano fuori inseguendo l’unico giocatore che era riuscito col piede e tirar via la palla. I ragazzini della Boca non apprezzavano molto la disorganizzazione di quelle prime partite che si tenevano dall’altra parte dell’oceano.
Un giorno si riunirono per decidere che anche loro avrebbero avuto una squadra, una maglia, un campo, dei supporter. Erano Esteban Baglietto; Alfredo Scarpatti; Santiago Pedro Sana e i fratelli Juan e Teodoro Farenga ai quali si aggiunse subito dopo Tomás Movio e quindi Amedeo Gelsi, nominato vice presidente. Il più anziano, si far per dire, era Juan Farenga, ventunenne. I loro genitori non erano neppure quarantenni, a parte il padre di Alfredo Scarpatti che di anni ne teneva 44. L’unica nata in Argentina era Emilia Guarello, mamma di Scarpatti. Tutti i padri erano nati in Italia, quattro in Liguria, uno in Basilicata. Il padre di Gelsi era fiorentino, la madre Teresa Navarino era nata a Buenos Aires.
Inizialmente come punto d’incontro fu scelta la casa dei Baglietto, nativi di Varazze, al numero 1232 di Ministro Brin. La strada era stata intitolata a Benedetto Brin (1833-1898), al momento della sua scomparsa, per rammentare una figura fondamentale per la Marina Militare italiana, ministro, ingegnere navale, ideatore dell’Arsenale militare della Spezia, progettista di 141 imbarcazioni, che aveva facilitato l’acquisto da parte dell’Argentina, impegnata nel conflitto col Cile, delle navi da guerra San Martín, Belgrano e Garibaldi. Ma siccome in quelle strambe riunioni le urla e gli spintoni prevalevano sui discorsi, il signor Giovanni Baglietto e sua moglie Catalina Vernazza cacciarono fuori i ragazzi da quelle modeste quattro mura. Allora la prima sede della nuova società sportiva divenne una panchina di Plaza Solís dove il club del Boca fu fondato ufficialmente il 3 aprile 1905. Tutti decisero che l’appellativo sarebbe stato xeneises per il semplice fatto che quello della Boca era un barrio quasi esclusivamente ligure. Accettarono a malincuore anche i fratelli Farenga, originari di Muro Lucano, anche se la madre, Livia Vallega, era nata nel 1861 a Finalmarina, in provincia di Savona, allora genovese. Il loro nonno, Francisco Pablo Farenga, che era emigrato nel 1860 a Buenos Aires a 22 anni, da buon falegname costruì le prime porte di legno del campo di calcio in cui si sarebbero allenati nei fine settimana, le quattro bandierine del calcio d’angolo e le tavole per la tribunetta. Per dare un tocco inglese Santiago Sana propose di aggiungere la parola Juniors, incoraggiati dal professore di ginnastica Patty McCarthy, che era il suo insegnante, oltre che di Baglietto e Scarpatti alla Escuela Superior de Comercio in Calle Bartolomé Mitre 1364.Altri consigliarono la denominazione Club Atletico, tanto per sentirsi importanti. Non lo sapevano, ma quegli adolescenti stavano dando vita al club più titolato nella storia del pallone, il Boca Juniors.
Il primo vero presidente della panchina di Plaza Solís fu Esteban Baglietto, ma quando si fece sul serio lo scettro passò a Luis Cerezo poiché il ragazzo ligure era minorenne. La prima casacca fu rosa, usata per una partita rionale; quindi la sorella dei Farenga riuscì a rammendare su una maglia bianca delle sottili strisce di tela nera che spesso si sfilacciavano, tirate via dalle unghie degli avversari. Allora si optò per una semplice maglietta celeste. Poi per alcun partite si tornò alla maglia bianca, questa volta con righe blu. Il club giocò la sua prima gara il 21 aprile del 1905, contro il Club Mariano Moreno, vincendo 4-0 con questa formazione: Esteban Baglietto, José María Farenga, Santiago Sana, Vicente Oñate, Guillermo Tyler, Luis De Harenne, Alfredo Scarpatti, Pedro Moltedo, Amadeo Gelsi, Alberto Tallent e Juan Antonio Farenga. Proprio Juan Farenga, il capitano, fece una doppietta; le altre reti le segnarono José Farenga e Santiago Sana. Baglietto era portiere, fondatore e presidente. Da quell’anno i giovani del Boca si iscrissero alla Liga de Villa Lobos, l’anno dopo alla Liga Central, vincendo alla fine il titolo. Nel 1907 alla Albion League partecipando anche al torneo organizzato dall’Associazione Porteña, in cui giocò l’Universal di Montevideo. Contro gli uruguaiani, l’ 8 dicembre del 1907, perdendo 0-1, i xeneises giocarono quella che viene considerata la prima partita internazionale.
Un giorno del 1907, dovendo scontrarsi con l’Almagro, che sfoggiava una divisa degli stessi colori, i ragazzi del Boca si misero in giro nel barrio genovese a cercare una casacca giusta. Anche in questo caso i giocatori, col loro carattere burbero e ostico da liguri di mare, non giunsero ad una scelta condivisa. Allora Juan Rafael Brichetto, addetto al ponte sul Riachuelo, incaricato di far entrare i vapori in darsena, il quale l’anno prima era stato presidente e che lo sarà di nuovo nel periodo 1910-13, decise che avrebbero giocato con i colori della prima bandiera di nave che avrebbe attraccato al porto. Si misero con la punta del naso a guardare la fumosa aria calda del rio sperando che giungesse un tricolore ma, invece, non si presentò alcuna nave. Il giorno seguente Brichetto, dall’alto del ponte del Riachiulo, segnalò agli amici che stava arrivando un cargo sbuffante e ansimante, contento di giungere a destinazione dopo la lunga traversata atlantica: era la Drottling Sophia, la Regina Sophia. I ragazzi che stavano sulle rive di questo fiume lercio videro comparire il barco svedese con il vessillo azzurro e la croce gialla. Andarono in campo con quei colori. La banda gialla era una riga diagonale che scendeva da sinistra a destra, cucita a mano. Poi nel 1913 si optò per una riga orizzontale nel mezzo della divisa e così restò per sempre.
Dopo le partite, i giocatori e i tifosi si accalcavano nelle bettole della fugazza, della fainà e del pesce fritto dove si vendeva il giornale “O Balilla” in genovese e si incontravano gli uomini delle Confraternite dedicate alla Madonne delle pievi liguri. La sera ci si accalcava nelle balere dove andava in scena quella musica ancestrale che si chiama tango, un pensiero triste che si balla, secondo il maestro Enrique Santos Discépolo. Allo spaesamento e alla mancanza di radici quei ritrovi poco illuminati, fumosi e dall’aria malsana, diventano piccoli angoli di certezze con un bicchiere d’alcool da ingurgitare, una bibita da sorseggiare, un matè da bere, un amico con cui scambiare due chiacchiere, una donna da puntare e una fotografia appesa alla pareti che rammenta la stagione dei piroscafi. L’intimità del salone da ballo trasmette sicurezze al contrario della maestosità di Buenos Aires che trasmette l’eterna inquietudine dell’emigrante. Nel tango si piangono gli amori finiti, i famigliari perduti, i luoghi abbandonati, la gioventù svilita. Si guardano i propri vecchi che hanno attraversato l’oceano e di colpo ci si sente più anziani di loro avendo portato dall’altra parte dell’Atlantico il peso memoriale di intere generazioni. Il senso dell’addio non si placa, uno stato d’anima ansioso insediatosi subdolamente nel fondo dell’anima di chi ha varcato l’oceano senza un apparente motivo oltre la pura sopravvivenza. Gli incalliti amanti della milonga, tra un singhiozzo e una lacrima, non fanno mancare mai al cantante una tirata di fumo o un bicchiere di vino per mantenerlo vivo. Con il tango i corpi si toccano, si sfiorano, i sudori si mischiano, i profumi si trasferiscono dal collo della donna alle narici dell’uomo che guida la coppia, dirige la circolazione, scaccia le convenzioni del passo e inventa come solo si inventa nell’atto dell’amore. Lui cinge la vita di lei; lei appoggia la mano sinistra sulla spalla di lui; poi si stringono la mano forte, come se dovessero attraversare di nuovo l’oceano.
Tra un bicchiere e l’altro nel peringundines qualcuno rammentava un’immagine di Boccadasse, una barca, una nave, la Lanterna di Genova, la focaccia di Recco e le acciughe di Monterosso. Il mondo sembra sfilarsi e diventare una trama di rotte senza ritorno. Allora tutti brindano alla squadra dei xeneises sentendosi d’improvviso in nessun luogo, in quel limbo di sensazioni che rinuncia al rimpianto e fa guardare avanti.
Orgogliosi, introversi e brontoloni, i boquenses si sono sempre sentiti diversi, chiusi nelle loro particolarità tutta ligure. Dopo vari tentativi secessionistici, nel 1882 decisero di autoproclamarsi República Independiente de La Boca. Su 35 mila abitanti, gli spagnoli erano solamente duemila. Il resto era gente che non aveva mai visto una pianura, era nata e cresciuta tra le onde, annusava la direzione del vento, conosceva il corso delle nuvole, cavalcava l’Atlantica alle ricerca di una rivoluzione da combattere. Dal 1860, infatti, la Boca divenne la meta dell’emigrazione politica peninsulare scontenta del risultato ottenuto dal Risorgimento italiano. Tra loro garibaldini e carbonari, innervati da spirito internazionalista, esponenti di società segrete e logge, repubblicani e rivoluzionari esiliati, nizzardi senza più patria. La loro voce era il giornale El Ancla, definito primo periodico della Boca e di Barracas, apparso dal 1875. I ragazzi erano colmi di nostalgia per l’Italia perduta. Crescevano coltivando tre parole: patria, libertà e indipendenza. E anche se vivevano con un piede sulla terraferma ed un piede su una nave, uno in Sud America ed uno ancora fermo in Liguria, molti di loro intuivano che non avrebbero più fatto ritorno in quell’arco di montagne affacciato sul mar Mediterraneo.
Così sul Riachuelo issarono la nuova bandiera albiceleste con lo scudo dei Savoia al centro e un fregio di stampo repubblicano, si misero a battere moneta, dichiararono il ligure lingua ufficiale e firmarono un atto che inviarono al re d’Italia Umberto I° con la prima nave che salpò dal molo chiedendo il riconoscimento internazionale.
Quando al generale Julio Argentino Roca, presidente della Repubblica, che aveva sterminato gli indios della Patagonia, gli dissero che i xeneises della Boca avevano avviato una azione secessionista a pochi passi dalla sua residenza, pensò che fosse una pittoresca ribellione dovuta all’alto consumo di vino e alcolici. Invece in poche ore, grattandosi il folto pinzetto che puzzava di sangue mapuche, in segno di perplessità, si rese conto che quelli della Boca facevano sul serio. “Vogliono fare come a San Marino” proclamò un segretario di Roca di origine romagnola. I promotori si chiamavano Vernengo, Cafferata, Blanco, Ungaro, Invierno, Castañera e Perazzo. Fu lo stesso Roca a recarsi in carrozza nella Boccadasse bairese per contrattare la resa o meglio l’accordo. Fu tale in convincimento che il giorno seguente i boquenses genovesi battezzarono col nome di Presidente una delle calle principali della zona.
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Juan Antonio Farenga hijo (figlio) mi mostra una foto del 25 maggio 1940. All’inaugurazione della Bombonera, al centro del campo, gli eroi della fondazione del club tengono dispiegata la bandiera del Boca: Josè Farenga, Juan Antonio Farenga, Arturo Penny, Ludovico Dollens, Juan Priano, Marcelino Vergara e Pedro Moltedo. Camminiamo lasciandoci alla spalle gli spalti dello stadio. Juan Antonio si tiene ad un bastone, gambe arcuate, occhiali e baffi e si ferma spesso. Per lui ogni angolo di questo quartiere contiene una storia, una vicenda, un aneddoto, un ritrovo: la salumeria dei Delfino, il vino dei Cacace, la pizzeria di Juan Priano, la focaccia e la fainà di Tuñin de la Boca e quella di Pedrin che la vendeva davanti allo stadio con il suo banchetto.
Per sostenere le sue tesi – estratta dai ricordi del padre, dello zio, della famiglia, – ha anche scritto un libro Nosostros Boca e quando è venuto in visita al paese natale del nonno, Muro Lucano, ne ha pubblicato una versione anche in italiano, Noi Boca edito dalla Commissione Regione dei Lucani all’estero presieduta da Pietro Simonetti.
Sulla strada corrono ancora i binari di un tranvai che non arriva da decenni. L’erba incolta copre la vecchia staccionata rimasta in piedi. Juan Antonio Farenga junior mi mostra la placca metallica che ricorda la fondazione del Boca Junior. È stata collocata in Piazza Solis nel luogo dove era collocata la panchina degli incontri dei fondatori. Sino a qualche decennio fa si poteva ancora vedere, una panchina in legno, stile italiano, in ferro battuto ricoperto da strisce di legno con alle spalle un albero dal fusto corposo e abbondante. Ora non c’è più, ma in molti la ricordano, la descrivano. Qui tutto odora di Boca Juniors. La versione di Juan Antonio Farenga junior è semplice: “Nel momento cruciale per i destini del club, quando il ragazzi non avevano dove riunirsi, mio padre ha aperto il portico di casa sua, in Via Pinzón 267, per permettere che si dichiarasse la fondazione ufficiale del Boca e si tenesse la prima riunione della commissione direttiva della neonata società”.
Su un cancello di latta color rosso c’è appeso il numero civico 267 in calle Pinzón. La casa è di diversi colori, rosso e grigio, come gran parte degli edifici della Boca, dipinti a seconda della pittura che si trovava a bordo delle navi. “Il 3 aprile i fondatori si sedettero tutti nella stanza da letto dei quattro fratelli Farenga. Più volte – assicura Juan Antonio Farenga junior – i ragazzi si accalcavano sui letti per discutere e prendere le prime decisioni. Ma non c’è dubbio che negli anni mi avvicinavo alla panchina di Plaza Solis con mio padre ogni 3 aprile per festeggiare l’inizio del sogno”.
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Passeggiare oggi davanti alla Bombonera incute un certo timore. La massiccia costruzione inaugurata nel 1940 con le sue forme rigonfie e le tribune inclinate verso il campo sembrano contenere tutto la memoria di una grande storia. L’emigrazione si fonde più dentro lo stadio che non nelle calli disadorne del barrio dove, ancora adesso, l’acqua la fa da padrone, diventando l’elemento coagulante.
Mi trovo sotto l’ingresso principale della Bombonera lato nord. Questa scatola di cioccolatini dai colori giallo e blu dipinti sugli spalti ha una conformazione particolare, a forma di D. Ha tre lati alti e verticali, con curve di continuità, e un lato, quello della tribuna, stretto e più basso, quasi affilato. E anche le case gli stanno addosso per tre lati mentre il quarto, all’opposto della tribuna, ha un piazzale antistante e le abitazioni distanti. Questa particolare sagoma determina una vocalità unica dello spazio: non a caso la tifoseria della Bombonera è chiamata La Doce – il 12° uomo in campo – poiché i cori si trasmettono sul campo come un’onda vocale. Seppur gli abbiamo affibbiato diversi nomi (prima Camilo Cichero, poi Alberto J. Armando) , tutto lo chiamano Bombonera perché il suo progettista, l’architetto triestino Viktor Sulcic al momento della presentazione del progetto, basato sull’Artemio Franchi di Firenze, aveva ricevuto in regalo una scatola di cioccolatini dai colleghi, in particolare da Josè Delpini, che così lo ribattezzò.
Ho un amico che è cresciuto di fronte alla porta d’ingresso della Bombonera, una posizione in cui è difficile, in certi giorni, ottenere pace e tranquillità. Si chiama Juan Bautista Stagnaro ed è un regista di cinema. Ha realizzato film come Casas de Fuego, La Furia, El Amateur , Un Dia en el Paraiso, El Séptimo Arcàngel e sceneggiatore del film Camila, finalista all’Oscar 1984 come miglior film straniero.
Suo padre è emigrato dalla Liguria, faceva il pescatore, è andato prima a Bahia Blanca e dopo alla Boca. Stagnaro si sofferma su un aspetto che sembra insignificante ma non lo è: “La Bombonera ha un acustica perfetta. Si dice che le voci di cinquantamila persone coprano letteralmente il cemento. Per questo non è meno grande il peso del suo silenzio, nei giorni feriali”.
Lui lo sa bene, ha vissuto con quei silenzi e quei clamori. Li ha nella testa, rimbombano al solo pronunciarli. La prima volta che è entrato oltre quelle muraglia possente che dominavano la finestra di casa sua è stato nel 1963: “Il campo era vuoto, le tribune vuote, guardavo il fossato mezzo pieno di acqua piovana che all’epoca separa le tribune dello spazio di gioco. Poi, all’improvviso, entrarono dei calciatori, gli eroi delle fatiche, lontano dalle immagini colorate delle copertine delle riviste. In quel silenzio si poteva sentire l’impatto del piede sulla palla, con un lieve ritardo dovuto alla distanza, un leggero disallineamento, un fallimento di sincronizzazione. I calciatori ridevano, si facevano degli scherzi, sembravano ragazzi, ma che ragazzi, uomini infantili, si spingevano l’un l’altro, si lasciavano cadere sull’erba, come bambini, lontano dalle gesta della domenica pomeriggio. Sembravano degli dei sprovveduti con i loro pantaloncini sbiaditi da ginnastica. C’era un solo spettatore nella cancha vuota, un ragazzo, io. Una inversione della logica dello sguardo, dall’interno verso l’esterno. Che pensavano gli dei del pallone di quell’adolescente che di tanto in tanto alzava lo sguardo dal libro e li guardava? L’adolescente leggeva, sognava e guardava. Era il titolare esclusivo del suo sguardo. Ancora ha tutta la vita davanti. Però i suoi sogni erano poveri, accessibili. Quale di quegli dei provocherà il delirio nella prossima finale di Coppa America che si terrà proprio là, in quel luogo, in quello scenario, in quel campo di calcio?”.
Stagnaro mi porta nella gradinata dove era seduto quel pomeriggio del ’63. E ancora si domanda che cosa potessero pensare di lui che invece di gridare leggeva, quell’unico testimone di uno spazio proprio, di uno spazio che nella settimana non vive, in attesa di riprendere fiato alla domenica.
L’esperienza di quell’attimo, mi suggerisce Stagnaro, ha segnato il resto della sua vita dominata dal segno dell’opposto: la realtà e il simbolo, il pieno e il vuoto, il silenzio e le grida, le visioni verticali e quelle orizzontali, la luce e l’ombra, l’azione e lo sguardo, la notte e il giorno. Siamo già in pieno set cinematografico: che cosa succede se si mettono assieme queste azioni alternative? Che cosa succede se i suoni si smuovono? E se il suono non è regolato, non è sincronizzato? Da lì discende la metafora, anche quella del pallone come specchio della vita. Soprattutto da queste parti del Riachuelo dove l’esistenza si è sdoppiata: perse le radici se ne cercano altre. E quelle, come detto, stanno appese proprio a questi spalti di doppio colore, come doppia è la percezione degli emigranti e dei loro discendenti.
Poi il giorno della finale arrivò grigio e piovoso. Le tribune esplodevano. Adesso lo sguardo del chico GB è uno, uno solo tra mille e mille. “Essere uno di una moltitudine, stretto nella folla, – racconta Stagnaro – dà l’illusione di sentirsi parte di un organismo, integrati agli altri, una parte di un unico. Così è alla Bombonera, corpi incastrati insieme in una unica volontà di movimento, che sale e scende le scale (in senso letterale!) senza che i piedi tocchino il pavimento. Si ha davvero il senso della verticalità che non dipende dalla volontà dei singoli ma dalla capacità di restare in sincronia con la massa compatta che va e viene in accordo con la musica di quel gioco rischioso”.
Con qualche patema d’animo Juan Bautista Stagnaro confessa che quel match appartiene alla storia, Boca Junior-Santos, finale de Copa de Campeones de América (ora Coppa Libertadores). Dopo il 3-2 dell’andata i brasiliani conquistarono anche la Bombonera. “All’inizio de secondo tempo – rammenta adesso Stagnaro con una certa concitazione sportiva, a cinquant’anni dai fatti narrati, – il Boca conseguì un gol sucio, frutto di spintoni e rimbalzi, realizzato dal grande Sanfilippo. Ciò provocò una certa incazzatura degli uomini in maglia bianca che, messa la palla a centrocampo, veloci, con rapidi e sorprendenti passaggi, arrivarono in area e segnarono con Coutinho. Su di noi calò il silenziò. La vostra effimera felicità era durata pochi minuti. Dovevamo ricominciare da capo. Il Boca prese il controllo del centrocampo, però i bianchi rubavano spesso la palla e rilanciavano. Così il Santos riuscì a segnare di nuovo all’82° con incredibile precisione. Non vi era giustizia al mondo? In uno spazio di tempo così limitato decadevano i sogni? Dorval, Didí, Coutinho, Pelé, Pepe. Sì, io vidi giocare il Santos di Pelè nella Copa America in casa mia, da casa mia, che era a pochi metri dal mito. Quella volta ho imparato il peso schiacciante del dolore senza metafore. Ma ho anche imparato la bellezza irraggiungibile della parola straniero”.