Liu Bolin al Mudec Photo di Milano
Vestito per sparire
Senza interventi di photoshop o altra tecnologia, il fotografo cinese raggiunge un effetto camaleontico, mostrandosi mentre si cela nei soggetti delle sue opere. Alludendo, antropologicamente, a complessi e studiati snodi concettuali tra visuale e sociale
Il Mudec Photo di Milano ospita una mostra di Liu Bolin, fotografo cinese notissimo, le cui opere riescono a “spaccare” la bulimia massmediologica nei confronti delle immagini e si imprimono nel nostro immaginario, grazie a una precisa strategia che oramai contraddistingue il suo “brand”: individuare un contesto e mimetizzarsi in esso. L’effetto camaleontico non è ottenuto con interventi di photoshop o qualsivoglia altro dispositivo tecnologico, ma è frutto di un lavoro di carattere artigianale di un’accuratezza impressionante. Bolin dipinge il proprio corpo o realizza un abito mimetico, per poi sovrapporsi in una posizione precisa rispetto a uno sfondo, come a chiudere il tassello di un puzzle, rendendosi a tutti gli effetti invisibile anche a uno sguardo attento. In ogni fotografia c’è dunque un lavoro di studio di un fondale, di preparazione di un’installazione “posticcia” della figura rispetto allo sfondo, di pittura e di performance. La sparizione così ottenuta si presta a interessanti dicotomie con cui l’artista comunica contraddizioni sociali e da cui sembra trapelare il pensiero olistico orientale del rapporto tra il tutto rispetto alla parte.
La lettura che qui intendiamo fornire si appunta su un interessante snodo antropologico, quello del mostrarsi attraverso la superficie del proprio corpo, nella propria nudità o ricoperto da vestiti. Capitolo sterminato in antropologia, molto prossimo a quello del tatuaggio, è il tema dell’apparire, cioè della struttura di fondo della comunicazione e del rapporto societario, in cui il vestito ha un ruolo particolare. «…in quanto oggetto legato all’apparire, il vestito lusinga la curiosità tutta moderna per la psicologia sociale, perché invita a superare i limiti ormai logori che separano l’individuo e la società» (Roland Barthes, Il linguaggio del vestito, 1959). Travestimento, mimetizzazione, simulazione contraddistinguono il mondo biologico come quello metaforico societario: come nelle livree degli animali, o nei grandi occhi sulle ali delle farfalle, o nella capacità della mantide religiosa di mimetizzarsi tra i rami, così le esigenze “culturali” dell’uomo nella società ne fanno un attore in una messa in scena, rituale o quotidiana. Il vestito assume anche una funzione normalizzante rispetto all’anatomia del corpo, il cui “ordine” è incerto e ambiguo, accennato da geometrie vaghe e instabili, da simmetrie dubbie ed effimere su cui soprattutto l’arte classica ha cercato di esercitare una funzione equilibratrice. In uno dei suoi capolavori, Il senso dell’ordine (1984), Ernst H. Gombrich esplora l’imperativo all’ordine che governa i rapporti tra visuale e sociale in vari momenti storici: nella vita quotidiana, nell’arte alta, nelle arti applicate, nell’artigianato.
Caso particolare è quello delle uniformi, dove la disciplina militare impone “vestiti collettivi”, per l’appunto “modulari” in cui l’individuo è solo un elemento componibile di una collettività ipercoesa. E dove geometrie e simmetrie di carattere ornamentale-strutturale sono spinte all’estremo, soprattutto se quella collettività è espressione di una ideologia totalitaria.
Liu Bolin riaccende sorprendentemente l’attenzione su questi temi fondamentali per la semiologia e l’antropologia, con un’azione di “semplice” travestimento, in cui di volta in volta vestirsi, apparire, esserci, poter essere guardato o sparire assumono pesi diversi e si pongono ineluttabilmente alla nostra considerazione. La posa di fronte al Mosé di Michelangelo, che avevamo visto all’ultima edizione del MIA Photo Fair e con cui vinse il premio BNL Gruppo BNP Paribas, è virtuosa e rivelatrice del debito verso l’arte italiana, consacrata in diversi altri scatti. Mentre Future, 2015, veicola un potentissimo messaggio che utilizza sia il tatuaggio che il travestimento: corpi significativamente nudi, inermi, di migranti africani, recano sulla propria pelle la scritta che vuole essere la cifra del proprio destino, la ricerca di un futuro diverso da quello di violenza e barbarie del paese da cui fuggono. Gli stessi “personaggi”, questa volta “vestiti”, diventano invisibili di fronte alle carrette del mare a cui è affidata la loro speranza (in Migrants o Hope, 2015).
Il rapporto con il proprio paese e con le politiche del governo cinese ancora molto pressanti e restrittive, viene espresso in scatti che, a dispetto della normalizzazione, della inclusione della figura nello sfondo, suonano come un’eversione destabilizzante. Come nella foto Suojia Village in cui l’artista si “uniforma” all’immagine della propria casa distrutta durante lo sgombero del suo paese nel 2015, ordinato dalle autorità, mostrando di fatto una denuncia. O quello dove il costume di Liu Bolin è in tutto e per tutto sovrapponibile alla bandiera della Repubblica Popolare Cinese, ma la figura spicca sul fondo, in una mimesi volutamente mancata.
Una parte delle foto esposte sono frutto di una sessione fotografica realizzata a Milano, in luoghi di per sé iconici, come il Teatro alla Scala, il Duomo di Milano, la nuova sala del Castello Sforzesco che espone la Pietà Rondanini di Michelangelo. La performance realizzata al MUDEC, documentata anche in un interessantissimo video che ci “svela” i segreti degli scatti di Liu Bolin, afferma invece il lato più propriamente antropologico del lavoro dell’artista, che indossa un vestito “totemico” per scomparire così tra i reperti extraeuropei del Museo delle Culture.
Liu Bolin Visible Invisible
Mostra 24ORE Cultura in collaborazione con Box Art, Verona
A cura di Beatrice Benedetti
MUDEC, Stecca Ex – Ansaldo, via Tortona 56, Milano
Fino al 15 settembre 2019