Adriano Napoli
Nove racconti di Silvia Pareschi

Il Boss e il ramo d’oro

L’autrice approda al suo destino (quello di traduttrice di letteratura nord americana) grazie alla sua passione per il cantante del New Jersey. Ne dà testimonianza ne “I jeans di Bruce Springsteen” che attraversa coast to coast il Mito americano, tra narrativa e saggismo

A sedici anni Silvia assiste al “mitico” concerto di Springsteen e della sua band a San Siro, toccando «vette di estasi mistica» come può succedere solo a un’adolescente innamorata. Tempo dopo, insieme a Camilla, affronta un disumano viaggio in pullman di oltre ottanta ore, coast to coast da San Francisco a New York, rimpinzandosi di aspettative e panini “tappa esofago” al tonno e philadelphia (tutto ha già il sapore degli States nella vocazione della futura traduttrice di letteratura nord-americana Silvia Pareschi). Ad attenderle a New York c’è il signor Amato, un napoletano immigrato nella Grande Mela, (amico di vecchia data, non si sa per quali contorsioni del Fato, del papà di Silvia), basso tarchiato e somigliante al giudice Falcone, che dopo un barbecue di benvenuto nella sua bella casa con giardino, le accompagna a bordo della sua Chevrolet fino a Freehold, la città natale del grande Bruce. Durante il viaggio la bizzarra comitiva attraversa Ashbury Park, dove «i pellegrini rendevano omaggio alle radici più antiche del culto di Springsteen», ma, con grande disappunto delle due ragazze, senza sostarvi neanche per un istante. «No, è troppo brutta, dai retta a me». Sentenzia il signor Amato, «Chi pensa che Atlantic City sia deprimente non ha visto Ashbury Park. E poi è ormai quasi ora di cena. Mister Federici ci aspetta a Freehold».

Vi arrivano che è già buio, ma in tempo per conoscere il pizzaiolo di Bruce (Mister Federici, of course), osservare dall’esterno la scuola frequentata di malavoglia dal loro mito, la casa al 68 di South Street dove la famiglia Springsteen abitò dal 1962 al 1969, e infine la sartoria di Ralph, a cui la futura rockstar portava in gioventù i jeans da rammendare. Da questo tour incredibile e frenetico Silvia porterà con sé un paio di jeans appartenuti (forse…) a uno Springsteen ancora imberbe, povero e sconosciuto. Peccato che la taglia 38 sia troppo stretta anche per l’entusiasmo incondizionato di un’adolescente e quei pantaloni sapidi di memoria e del Dna dell’idolo resteranno appesi come un poster autografato o la reliquia di un Santo al muro della sua stanzetta.

Se il racconto che abbiamo cercato di riassumere fosse uno di quegli exempla della letteratura medievale, potremmo ricavarne, dopo averne goduto gli effetti ironici e stravolgenti del narrato, una morale. Chissà se l’ineffabile guida, il signor Amato, era consapevole in quelle ore mirabolanti (forse sì) della missione iniziatica che si era assunto? E che con quel pellegrinaggio al sacrario di Freehold avrebbe consegnato alla sua giovane amica il simbolico ramo d’oro, indispensabile chiave di accesso non soltanto al culto di un mito, ma soprattutto di un Paese, delle sue sconfinate stratificazioni culturali, le sue vertiginose mutazioni antropologiche: della sua anima più profonda e celata? È come se quel viaggio nella memoria e nell’immaginario avesse innescato nella ragazza Silvia un modo diverso di osservare l’aspetto della Realtà, di soffermarsi sulle cose guardandole di sbieco, da un’angolazione laterale, più appartata, cogliendole di sorpresa, per fotogrammi sparsi da rielaborare a lungo nella camera oscura della mente.

Un modo insomma di confrontarsi con il Mito, ma con l’approccio in apparenza assurdo e iconoclasta di chi rivoltando un prezioso tappeto si sofferma a osservarne il rovescio, interessato agli intrecci inestricabili che ne compongono la trama piuttosto che all’effetto esteriore e appagante della sua facciata. È paradossale forse, ma è come se Pareschi avesse bisogno di decostruire dall’interno il Mito americano, scomponendone la trama fino a ridurla a un esile filamento per ricomporne nello sguardo il disegno più autentico. Che è poi, a ben riflettere, non troppo dissimile, l’operazione un po’ medianica, che deve compiere nel suo lavoro ostinato quasi ai limiti dell’impossibile, il traduttore… Un viaggio anch’esso, in fondo, coast to coast, da una lingua (da una dimensione dell’esistenza) all’altra.

È sintomatico: cercare di entrare nei jeans del proprio idolo, senza riuscirci… tentare di decrittare dai fotogrammi sgranati di una Kodac disk i contorni di una casa, di un paesaggio vago e familiare.. contattare telefonicamente, a trent’anni di distanza, lo stranito sarto di Springsteen per chiedergli se il negozio della foto è proprio “quel” negozio. Sono immagini, forme di un desiderio che diventa studio, ricerca, per giungere a un compimento e trovare risposte. «Ho deciso. Tornerò a trovare Ralph. Sono passati trent’anni ma ci sono molte domande che vorrei ancora fargli». È così che si conclude il racconto eponimo del libro di Silvia Pareschi. Con una curiosità che dilatandosi nel ricordo innesca un movimento incessante, un ritorno. È il movimento della scrittura, non vi pare? Della traduzione, e del racconto. Chiusa parentesi.

I jeans di Bruce Springsteen (Giunti) è un libro di nove racconti; quello su cui ci siamo soffermati è l’ultimo, e dà il titolo alla raccolta. Che, irritualmente, non è preceduta da alcuna prefazione, nota introduttiva, glossa esplicativa. Niente. C’è un esergo (una strofe tratta da una canzone celebre del Boss, Thunder road) e subito dopo il primo racconto, Puma, seguito dagli altri: Il Palazzo del Porno, Lavanderia a gettoni, La scelta della religione (suddiviso diligentemente in due emisferi distinti e comunicanti; East and West coast, per provare a mettere ordine nel magma religioso di un Paese che accoglie e professa un novero incalcolabile di confessioni); e di seguito: Ganya joga, Katrina (è il nome di un uragano, e una storia vera sapientemente “tradotta” come una fiction); Dimmi come mangi (il cibo quale termometro dello spirito del luogo e dei tempi), e altri ancora, fino all’epilogo, al racconto dei “jeans”.

Che è, come in certi arazzi, il dettaglio imprevedibile che cambia, spiazzandoci, la visione dell’insieme, costringendoci a contemplarlo in un modo altro. Perché l’America cambia, come le sue metropoli: San Francisco, ad esempio – dove Pareschi risiede e lavora per metà dell’anno. San Francisco luogo emblematico di ogni frontiera, del passato dei cercatori d’oro, e del presente della nuova generazione “techies”, avanguardia di una corsa alla tecnologia «che sostiene di voler rendere il mondo un posto migliore, ma che qui, per il momento, ha solo contribuito a spazzare via la classe media e a creare un mondo brutalmente diviso a metà tra ricchi e poveri». L’America, dunque, è qualcosa di più profondo e tellurico del suo Mito, esteriore, in apparenza orizzontale e granitico, avveniristico e senza passato, specchietto per allodole o esca a cui, con entusiasmo provinciale da neofiti, saremmo ben lieti di abboccare. Non è tuttavia questo l’intento di Pareschi, che piuttosto sembra volerci ispirare, immergendoci senza preamboli nel magma americano, così da accompagnarne con la lettura i passi e gli spaesamenti nel tempo e nelle latitudini di geografie reali e immaginazioni narrative, un’intelligenza dell’America non conforme a schematismi sociologi, politologici ecc. che rischiano, pur nella loro forbitezza e acume, di appiattire nel luogo, e nel senso comune che allignano indisturbati nell’asettico, informe mondo globale del nostro tempo. C’è invece un legame, crediamo, non trascurabile, tra la leggerezza dello stile e la consistenza degli argomenti trattati in queste storie che, refrattarie alla canonica separazione dei generi, mescolano fiction e cronaca, reportage e memoir, descrizioni gustose di tipologie umane e visioni liriche di ambienti. Ecco, ci sembra che questa modalità impura di scrivere, tra racconto e saggismo, conferisca a queste storie uno spessore peculiare, realistico e al contempo visionario, che si esercita, anche stilisticamente, nella volontà di sfidare con le armi dell’osservazione più che del giudizio, le illusioni ipertrofiche della contemporaneità calandosi a fondo dentro una sorta di anacronismo, che è in sostanza quella regressione, riscontrabile in molti di questi racconti, dall’orizzonte del moderno al primitivo, dove la vita rivela le sue infinite fenditure, e dove tutto è vero e un attimo dopo ambiguo, irriducibile a una forma univoca.

Spesso tra le righe dei racconti ci imbattiamo in periodi come questo: «Questo Alice Restaurant non è lo stesso della canzone e del film, no. Però potrebbe esserlo». (Puma). E ancora, «Come sfruttare al meglio quel momento? Liberandomi della mia introversione, come quando mi ero sgolata al concerto, oppure raccogliendomi per entrare nello spirito del luogo?» (I jeans di Bruce Springsteen). Sono due esempi di uno stile dilemmatico che riflettono un’etica. Forse è necessario imparare a oscillare tra ciò che è e ciò che non è mai stato, tra ciò che vorremmo essere e ciò che veramente siamo, per restare svegli e inappagati di realtà, per non farci sopraffare dal sentimento di irrealtà che ci assedia, e per provare ancora «l’eccitazione di aver trovato una rara pepita di sincerità nel monotono deserto della correttezza politica»? Se così fosse, l’America affrescata da Pareschi non sarebbe (soltanto) un Paese, un luogo, un Mito tra gli altri, ma una categoria morale, un modo anticonformista di vedere le cose, che comprende ancora la libertà e il rispetto del diverso e del lontano.

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