Notizie dalla 58° Biennale di Venezia
L’Arte del non detto
La scelta è quella di lasciare le opere aperte all’approccio individuale, libere, senza indicazioni né condizionamenti. Così i temi scottanti dei nostri “tempi interessanti” - la tragedia delle migrazioni, l’occhio invasivo del grande fratello, le catastrofi ambientali, il ruolo soverchiante della tecnologia - si manifestano senza essere dichiarati
La Biennale a cura di Ralph Rugoff intreccia una svariata trama di temi e aspetti dell’arte e della contemporaneità, in maniera apparentemente fluida, eppure molto complessa. Con un’impostazione critica inusuale viene direttamente riportata al visitatore, al critico, al fruitore, la domanda sullo statuto di ciò che in quel momento sta osservando. Viene per così dire allestita una zona vacante, problematica in cui posizionarsi rispetto alla valenza che l’opera può assumere, lasciando aperta ogni possibilità di interpretazione. È lo stesso curatore del resto a citare Umberto Eco in Opera aperta, dandoci una delle poche tracce esplicite per provare a raccapezzarci in questa edizione fitta di ben 90 presenze nazionali, dal maggior numero di artisti, 79 tra singoli e collettivi, e infine fortemente indirizzata all’attualità per la scelta di commissionare ad artisti viventi opere recentissime o realizzate appositamente.
Un esempio per tutti, forse il più eclatante per la portata dell’operazione, è Barca nostra, di Christoph Büchel, esposto in Arsenale sulla banchina antistante allo spazio caffè. Si tratta del relitto della barca eritrea che nel 2015 trasportava circa 1.000 persone migranti dalla Libia, e che affondò nel Canale di Sicilia, portando con sé centinaia di vittime. Non vi è didascalia o segnale alcuno che ci permetta di inquadrare lo scafo in una definizione tradizionalmente museale. All’inizio possiamo anche pensare che sia un rottame dimenticato in qualche angolo dello sterminato Arsenale, che per secoli fu il maggior cantiere navale al mondo. La provocazione che accende in noi la barca posata lì come opera d’arte si può trasformare in raccapriccio, in scandalo, tuttavia raggiunge il risultato voluto: rimanda a chi guarda la responsabilità di capire e ricordare. La prima traccia evidente è dunque la segnaletica, che nella Biennale di quest’anno reca informazioni spesso generiche sull’artista e a volte non entra nel merito di ciò che viene presentato, o ne parla in maniera ambigua, senza cioè assumere una valenza dichiarativa o assertiva di un pensiero. Le didascalie, come accade nel Padiglione Italia (dal titolo programmatico Né questa né altra. La sfida al Labirinto), sono spesso distanti dall’opera a cui si riferiscono, disallineate rispetto a essa e a volte occorre proprio cercarle ai bordi della parete, o sul pavimento. Seconda generale osservazione. I percorsi espositivi sono collegati tra loro, tanto che possiamo trovare le opere dei medesimi artisti distribuite tra gli spazi dell’Arsenale e del Padiglione Centrale ai Giardini. Non vi è una partizione in settori perché non sono enucleati temi nel percorso espositivo. Non vi è un settore dove il tema ecologista urli a imminenti catastrofi ambientali; non si parla del ruolo della tecnologia nel nostro mondo, come soverchiatore della nostra individualità; non si tocca il tema della parità di genere; la tragedia delle migrazioni non si espone ad alcun tipo di lettura esplicita. Eppure lo sguardo degli artisti è principalmente indirizzato su queste “interessanti” vicende del contemporaneo.
Le meravigliose opere di Tomás Saraceno, rispettivamente all’Arsenale con Aero(s)cene: On the Disappareance of the Clouds, i cui tecnologici mobile ricostruiscono nuvole malate, e ai Giardini con Spider/Web Pavilion 7, dove una luminiscente tela di ragno è intitolata ai diritti delle specie in estinzione, non sono inserite in una narrazione didattico-apodittica. Non lo è neanche l’occhio invasivo del grande fratello di Ryoji Ikeda, data-verse1, in cui simulazioni computerizzate dialogano tra riprese web e rielaborazioni statistiche, inchiodando le nostre vite dall’alto delle orbite satellitari. Le disuguaglianze sociali, la disparità tra occidente e sud del mondo, temi tragici le cui immagini saturano i canali delle cronache quotidiane: Altered Views, Padiglione Cile, ne fornisce una narrazione per immagini con un raggelante Hegemonic Museum in cui si ripercorre la storia delle sopraffazioni con flash di grande potenza. Il non detto è reso dunque manifesto, con gli strumenti più affinati e indipendenti che l’arte possa offrire. Forse con immorale cinismo, come con Barca nostra. Con truculenza e violenza, come il braccio meccanico dal sisifeo movimento con cui pulisce il sangue che sgorga senza fine dalla sua base (Sun Yuan e Peng You, Can’t Help Myself, 2016); o Dear (2015, degli stessi artisti), una pompa ad aria compressa collocata dentro lo scranno del Memoriale di Lincoln a Washington, che fa serpeggiare e sbattere minacciosamente un tubo all’interno di una teca, già segnata dalle sue frustate. Con poesia, come nel film Passaggio della regista Nujoom Alghanem nel Padiglione degli Emirati Arabi Uniti, dove la vicenda del viaggio, della transizione e migrazione assume connotati universali attraverso due racconti paralleli, dell’attrice e del personaggio da lei interpretato; o con la lunga vena marmorea della nigeriana Otobong Nkanga. Con inventiva giocosamente spettacolare, come Island Weather del padiglione filippino, installazione di grandi pozzi caleidoscopici su cui possiamo camminare, scrutandone le profondità dove sono incasellati oggetti, forse di un antico osservatorio dei sempre più frequenti tifoni che devastano le coste di Manila. Con orgogliosa eversione come in Discordo ergo sum dell’austriaca Renate Bertlmann che allestisce un giardino di rose trafitte.
Terzo elemento indicativo: la grande commistione dei media con cui sono realizzate le opere. Materiali di recupero intrecciati in sontuose e monumentali installazioni parietali, come nel padiglione del Ghana (alla sua prima apparizione a Venezia, insieme a Madagascar, Malesia e Pakistan); film in altissima risoluzione con onirici personaggi da video game, da vedere su poltrone vibranti (Jon Rafman, Dream Journal); filmati ripresi con cellulare dove famiglie separate si incontrano nella “valle delle grida” sull’altopiano del Golan al confine con Israele, urlando «Fermi. Basta. Ci sono mine antiuomo» (Lawrence Abu Hamdam). Ambienti di realtà virtuale (come Endodrome, di Dominique Gonzales-Foerster) o semplici e ricercatissime fotografie autoritratto (Zanele Muholi); giganti che indossano “vestiti” da gran sera, realizzati con pezzi di auto in una sorta di “bestiario punk frankensteiniano” (Mariana Telleria, El nombre de un país, padiglione Argentina); barriere coralline all’uncinetto (delle sorelle Christine e Margaret Wertheim); dispositivi da parchi divertimenti, come le sagome semoventi del magnifico padiglione russo o il corridoio mistico di luci LED spectra III (ancora Ikeda); case di bambola vere e virtuali (Kaari Upson, There Is No Such Thing as Outside).
Non emerge una predilezione tra le tecniche, come, tra le righe e i nomi alle nostre orecchie esotici, non appare che il numero delle artiste donne è uguale se non superiore a quello degli uomini. Non vi è neanche un organismo preciso dell’artista, ma suoi avatar ibridati, automi che richiamano i manichini animati del ‘700 (“Mondo cane”, Padiglione Belgio), corpi disabili (come quello dell’artista giapponese Mari Katayama). L’indifferenziata accumulazione di categorie-non categorie genera una diffusa ambiguità, che si fa magma da cui trarre “interessanti” considerazioni. L’arte è dunque un possibile collegamento tra noi e i nostri tempi, attraverso opere aperte al nostro approccio individuale lasciato libero e scevro da condizionamenti. L’atmosfera generale in cui il visitatore compie il suo viaggio critico è dominata dal titolo augurale “May You Live In Interesting Time” che, ci viene spiegato, si riallaccia all’affermazione di un quotidiano inglese negli anni ‘30 all’alba dell’affermarsi del nazionalsocialismo e del fascismo in Germania e Italia. Non ci si può esimere dal riferire il proprio punto di vista: fa parte del gioco. La riflessione che l’arte ci consente in un ambiente idealmente aperto come questo diventa automaticamente speranza e redenzione. I vapori che il Padiglione centrale esala dal tetto, con l’impianto fog scenografico dell’opera Thinking Head di Lara Favaretto, rimandano scherzosamente al nostro sforzo di affabulazione, “reificato” dall’artista in una stanza dove 50 gruppi di oggetti corrispondono ad altrettante parole chiave “su cui degli intellettuali rifletteranno”.
Immagini pubblicate per gentile concessione de La Biennale di Venezia: vicino al titolo, “Discordo Ergo Sum”, Padiglione Austria, © Francesco Galli; a seguire, “Barca nostra” di Christoph Büchel, © Andrea Avezzù; “Dream Journal 2016-2019” di Jon Rafman, © Italo Rondinella