A proposito di “Via Flaubert, civico 11”
Paradisi mancati
Antonio Carannante racconta il rapporto gelido tra un tagliatore di teste d'azienda privo di scrupoli e una poetessa che lavora in una ditta di bulloni. Una fotografia cruda dell'Italia delle grandi delusioni
Via Flaubert, civico 11 di Antonio Carannante (appena uscito da Castelvecchi editore) racconta di un uomo in carriera dei nostri tempi, moderatamente sicuro del fatto suo, ma senza ostentazioni narcisistiche, un po’ viziato dalla vita, forse, che l’ha abituato a vincere. Così ci appare Giorgio all’inizio di una vicenda che si svolge durante «l’inverno più freddo degli ultimi anni», e quel gelo sembra riguardare anche il clima a-sentimentale, venato di cinismo, che si respira anche nei momenti più drammatici in questo romanzo psicologico teso, concentrato, che può leggersi anche come una nera allegoria del nostro capitalismo globalizzato.
Il protagonista è un manager di un’azienda tessile della Brianza, a cui un bel giorno viene chiesto di dirigere uno stabilimento da portare alla chiusura in vista della delocalizzazione in Giappone dell’azienda. Giorgio accetta, pur intuendo che non sarà una passeggiata – si tratterà di contenere i costi, tagliando sui controlli di sicurezza di certi impianti vetusti che esalano sostanze tossiche. Lo hanno scelto per il suo pelo sullo stomaco, per quella sua capacità di muoversi in situazioni rischiose sul filo della legalità. Le cose si complicano quando muore un dipendente di cancro ai polmoni, e poi un altro e un altro ancora, e lui corrompe questo medico del lavoro o quell’ispettore del lavoro per portare a compimento senza danni la mission che gli è stata affidata.
Ma non è davvero importante lo sciogliersi della trama in un racconto che vive di pochi personaggi e di pochi ambienti, – quasi un dramma da camera, dalla rigida architettura, e dalla inevitabile progressione verso il punto di rottura e di disvelamento. Il senso di questo libro lo trovi di più, crediamo, negli interstizi della storia, in certe atmosfere moralmente opprimenti in azienda, in certo senso cechoviano di attesa e di sospensione che pare scaturire anche dal ritmo della prosa, attenta alle sfumature cromatiche, alle “disarmonie”. «Il viso di Dori, senza trucco, pareva meno spigoloso, come se i suoi lineamenti, senza l’ombra del fard o del pigmento scuro del mascara, si colmassero di una tensione adolescenziale».
Alla fine, ti resta dentro la sua quotidianità con la compagna poetessa, Dori, scandita in dialoghi e descrizioni sintetiche, efficaci, con l’incursione talvolta di versi di canzoni ascoltate in autoradio (Lou Reed, De Gregori…), o frammenti poetici letterari che sovvengono per una qualche coincidenza, o associazione. La giovane donna con cui Giorgio convive è ben disegnata nelle sue parole sentenziose, nei suoi deliqui romantici, nei suoi sbalzi di umore, e nelle sue comprensibili frustrazioni (voleva fare la ballerina e la poetessa, è laureata al Dams, e lavora in una fabbrica di bulloni!); la sua psicologia, assieme a quella del protagonista, si precisa attraverso dialoghi sempre un po’ straniati (Carannante è un eccellente dialoghista), che danno conto di una distanza fra i due, che il sesso non riesce a colmare, ma anzi quasi approfondisce. «I loro corpi, in quel preciso momento, nei rumori attutiti della strada di notte, giacevano inerti, come racchiusi in una di quelle sfere di vetro con la neve che cade». Si poteva perfino spingere ancora un po’ di più sul pedale della satira culturale, volendo; mentre nella storia parallela con la giovane dirigente dai virtuosi ideali, ex assessore alla cultura in qualche piccolo centro, che prova invano a opporsi alle ciniche strategie aziendali, ma è pure eroticamente attratta dalla calma e dalla spietata determinazione di Giorgio, sembra vincere un senso quasi sadomasochistico di dominio e di possesso. Infine c’è un vecchio amico, artista fallito e male in arnese, che vive in un condominio popolare dove Giorgio si reca qualche volta vincendo una certa estetica repulsione, e che forse vuole spillargli dei soldi, o forse no, e sembra incarnare, coi suoi quadri giovanili appesi al muro, le sue memorie, la sua attuale condizione di povertà materiale e di rassegnazione, «l’ombra di un paradiso corrotto e perduto per sempre».
Uno stralcio: «Sapeva bene di essere un uomo fortunato. Aveva un lavoro ben retribuito, con ottime prospettive, e una donna che si prendeva cura di lui. Quando si soffermava, anche solo per un attimo, a riflettere sulla sua condizione di uomo ultraquarantenne in carriera, con affetti saldi e un discreto benessere economico, provava un senso d’indifferenza, come se tutto quello, per assurdo, non gli appartenesse».