L'Italia di Salvini e Di Maio
W la scuola (libera)
Lo scandaloso provvedimento contro l'insegnante di Palermo la dice lunga sull'idea che i nuovi uomini forti d'Italia hanno della scuola, della libertà d'opinione e di come lo Stato non debba garantire conoscenza e spirito critico
La professoressa si chiama Rosa Maria Dell’Aria e, come è ormai noto, è stata sospesa per quindici giorni dall’insegnamento perché alcuni suoi studenti hanno realizzato un breve video per il Giorno della Memoria, in cui si raffrontano le persecuzioni e le leggi razziali attuate dai regimi fascista e nazista a ridosso e nel corso della seconda guerra mondiale con il decreto sicurezza recentemente approvato dal parlamento italiano su iniziativa del governo pentaleghista. In particolare, in un passaggio del video, accanto alla prima pagina del Corriere della Sera dell’11 novembre 1938, il cui titolo d’apertura recita «Le leggi in difesa della razza approvate dal Consiglio dei ministri», è posta la foto di un Salvini particolarmente fiero che impugna un cartello con la scritta #decretosalvini sicurezza e immigrazione.
Va detto che il video, in effetti un power point a cui si accompagnano le parole degli studenti, è ben costruito. Si può facilmente notare come sia frutto di un’attenta ricerca e di un interessante uso dei documenti. Il lavoro dei ragazzi si conclude con la domanda «Ma allora cosa significa celebrare un Giorno della Memoria?», a cui viene fornita la risposta: «Significa impegnarsi per protestare contro quello che accade oggi, e non lasciarsi manipolare da una politica nazionalista e xenofoba che rischia di ripetere gli errori di allora».
Niente di particolarmente fazioso o sovversivo, anche se le implicazioni politiche sono chiare e, del resto, apertamente dichiarate. Esse non sono frutto dell’appartenenza a uno o all’altro schieramento, ma nascono da una riflessione che è riassunta e sviluppata con il procedere delle varie pagine, non molte in verità, del power point. In altre parole, le considerazioni dei ragazzi sono politiche nel senso più nobile, in quanto seriamente preoccupate di contribuire alla vita della comunità in cui vivono. Possiamo immaginare come i ragazzi si siano confrontati, abbiano espresso valutazioni diverse, si siano interrogati sui documenti reperiti e sul valore della memoria nella vita di una popolazione e dei singoli individui.
L’insegnante è stata sospesa dall’Ufficio Scolastico Provinciale, perché non ha vigilato sul lavoro dei suoi alunni, che evidentemente si ritiene abbiano espresso delle valutazioni non consentite all’interno di un contesto scolastico. È stata la senatrice Lucia Borgonzoni, sottosegretario al ministero per i Beni Culturali, sollecitata da un post sui social di un attivista di estrema destra, a far partire l’indagine e a indicare la strada del provvedimento, dichiarando che «un prof del genere andrebbe cacciato con ignominia». Al di là delle evidenti implicazioni politiche, la vicenda accaduta in un istituto industriale di Palermo esorta a qualche riflessione relativamente al valore da attribuire al processo educativo nel nostro Paese. È evidente che se un gruppo di studenti di un istituto superiore sono stati messi nelle condizioni di porsi delle domande, di interrogare se stessi e i propri coetanei, di cercare di fornire delle osservazioni su questioni che riguardano il nostro passato e il nostro presente, significa che l’insegnamento ha funzionato, che quei ragazzi, che la pensino in un modo o nell’altro, sono in grado di affrontare questioni di una certa rilevanza in maniera critica e consapevole, che la loro insegnante, invece che «cacciata con ignominia», andrebbe difesa e ringraziata.
Ma forse ci fa piacere pensare in un modo diverso. Che i giovani cioè siano innanzitutto individui irresponsabili e pericolosi e che la scuola possa solo difendersi dal degrado. Si ritiene che ogni edificio scolastico sia un luogo dove si realizzino comportamenti socialmente dannosi e che dunque la questione vada regolata attraverso interventi innanzitutto di natura disciplinare. Chiamato a dire la propria opinione sulla vicenda, il ministro Salvini così esordisce (fonte Corriere tv): «Sto lavorando perché la scuola torni ad essere un luogo di libertà e di rispetto. Metteremo telecamere negli asili nido e nelle scuole materne per difendere i bambini, ma magari anche nelle scuole superiori per difendere gli insegnanti da alunni e genitori maneschi». Insomma, se c’è un problema nella scuola, è di ordine pubblico. Inaccettabile, quanto falso e fuorviante. E poi, che cosa significa che la scuola deve tornare ad essere un luogo di libertà? E perché, allora, una insegnante viene punita proprio per non aver limitato la libertà di opinione dei propri studenti, o forse addirittura per averli stimolati ad usare il pensiero?
Il problema che pone la vicenda di Palermo è anche questo e fa direttamente riferimento a come vogliamo che la scuola si relazioni con la società. La paura che nelle aule scolastiche si esprimano delle opinioni, e che addirittura libere riflessioni solo perché tali possano implicare atti punitivi per insegnati e studenti, è purtroppo sempre più diffusa. Il rischio è che la scuola produca dei diplomati con un bagaglio di conoscenze sempre più vasto, ma poco capaci di metterlo in relazione con le richieste della realtà sociale e politica. Ancora di più: il pericolo è che la scuola finisca per essere una sorta di strumento analgesico, che per paura di ogni possibile minaccia rappresentata dall’espressione libera delle idee, non abbia più idee, e tolga dunque ai giovani lo stimolo necessario a crescere e a cambiare il mondo.
Che cosa rimarrà di questa avventura agli studenti di quell’istituto industriale di Palermo e agli altri ragazzi di tutte le scuole italiane, se non l’idea che abbiano sbagliato ad esprimere le proprie opinioni e che nella scuola manifestare il proprio pensiero può risultare molto pericoloso?