A proposito di "Belluno"
Invettiva Valduga
La nuova raccolta di Patrizia Valduga ripropone una poetessa tesa e arrabbiata, che ricama le sue quartine mescolando alto e basso, scagliandosi contro le cupezza dei giorni e la cruda autobiografia di questi nostri tempi
Poemetto eccentrico e vitale, Belluno di Patrizia Valduga (Einaudi, pagg. 117, 14,50 euro) esce a sette anni di distanza dalla sua ultima raccolta, Il libro delle laudi. Un lavoro volutamente senza filtri, dove far entrare l’esistenza nella sua interezza: le abitudini quotidiane e gli ideali, gli slanci e le malinconie, i ricordi e l’invettiva (anche politica), le citazioni colte e le espressioni volgari, il diario della seduzione e il dialogo con i morti, le malattie e l’indignazione civile, si compongono in un miscuglio fecondo, in un’unica sostanza lirica. Tutto prende parte nel poemetto intitolato alla città dove la poetessa trascorre le sue vacanze. Bastano subito pochi versi per segnare la libertà e la vera cifra di questo libro: «È l’impoetico la mia poetica:/ il poetico ammazza la poesia».
Valduga non si lascia e non vuole farsi ingabbiare in formule: «Vi sento: – Non sa più quello che fa!/Sì che lo so che non sono quartine:/ io mi concedo qualche libertà» e che, come una sorta di fenice, dice di sé: «io mi edifico sulle mie rovine». Una poetessa che non bada a schemi e convenzioni: «- Ma questa è dissenteria mentale!/ E se anche fosse? A me fa mica male».
Nelle quartine, la forma prediletta da Patrizia Valduga, l’humor nero (quasi alla Celine) diventa forza salvifica contro la cupezza dei giorni e la cruda autobiografia: «Care montagne, siamo in alto mare./ Se niente niente il cranio si è ristretto?.. – O vieni col mio cazzo o vai a cagare./ Caspita! Endecasillabo perfetto». E in questo gioco di dolore e sarcasmo, chi scrive ci porta nel farsi della sua poesia: «Mi rompete la metrica imbecilli./ Ho nella testa qualcosa che preme…/ e non trovo nessuna rima in illi».
È la musica – sottolineata anche dal sottotitolo “Andantino e grande fuga” – a governare questi versi, una musica insistita, a volte cantabile e leggera, a volte spezzettata e piena di inciampi, un fluire e un sovrapporsi di assonanze, allitterazioni e rime, mai scontate. Ma soprattutto questo è il libro a cui Valduga consegna i quindici anni vissuti senza Giovanni Raboni, il libro straziato dell’amore irrimediabilmente assente, ma sempre presentissimo, tanto da riverberarsi in altre figure: il Don Giovanni di Da Ponte e lo Johannes di Theodor Dreyer: «Ma cosa ho fatto in questi quindici anni?/ Mi pare di esser stata sempre sola…/ a infradicire…fradicia di affanni…/ Dilla per me Johannes, la Parola!». Raboni, voce dentro la voce, «cuore più grande intorno al cuore!. Gli anni del “dopo-Giovanni” in cui Valduga ha imparato “a gridare senza suono”.
C’è posto nel libro anche per l’attacco alle miserie di questi anni («Chi non si oppone alle iniquità/ è colpevole quanto chi le fa./ Le avete le villette e le pensioni?/ E allora andate fuori dai coglioni!»), alla regressione culturale («Dreyer è morto cinquant’anni fa:/ non ho visto una riga…Non conviene:/ al popolo si dà quel che sa già./ Ah! L’ignoranza la si insegna bene») e, ancora, al fastidio per le odierne pagine letterarie («Non è più critica, è criticheria»). Un poemetto che corre fino alla perorazione finale sempre in nome di Raboni, non prima di avere toccato la consapevolezza che «la comunione dei vivi e dei morti/ è senso e storia dell’animo umano».