Pier Mario Fasanotti
Consigli per gli acquisti

Senza Schiavone

Antonio Manzini, per una volta, si esercita senza il commissario Schiavone; Gianrico Carofiglio insegue il mito di Mario Soldati e Sayed Kashua racconta le difficoltà di vivere in un mondo di pieno di confini e contraddizioni

L’assurdo. Come molti lettori e telespettatori sanno, Antonio Manzini è l’inventore del vicequestore Rocco Schiavone, emblema dell’arguzia e della cialtronesca irregolarità. Ebbene, l’ultimo suo libro (Ogni riferimento è puramente casuale, Sellerio, 288 pagine, 13 euro) non ha nulla a che vedere col poliziotto romano esiliato in Valle d’Aosta. Ma soprattutto è un esempio di scrittura molto raffinata. I suoi racconti hanno come perno l’assurdità. Assai esilarante. Il suo è anche una sonora stoccata al mondo editoriale. Nel primo capitolo si narra di Samuel Protti, che abbandona il quartiere romano del Pigneto (ricordare Nanni Moretti?) per isolarsi in Sardegna. Ha alle spalle romanzi di enorme successo, sia di critica che di pubblico. La vena creativa si è seccata e non si adopera per rivedere l’unico suo romanzo non pubblicato.

Esperto delle letterature del Mali e dello Shri Lanka, considera autore sommo tale Alvaro Careddu, del quale la gente sa poco, anzi nulla. Ricorda i suoi successi, molti dei quali premiati, ricorda la noiosa «odissea delle presentazioni», anche in luoghi con fatica individuabili sulla carta geografica. A chi organizza l’evento non ha remore nel dire che «ho fatto un viaggio di merda, l’albergo fa cacare e pure la vetrina». Poi il rito delle dediche in librerie «indipendenti e aggressive». Dediche argute ma del tutto strampalate. Un giorno il postino gli consegna una busta con l’intestazione Mondadori. La apre con stupore e legge che le sue opere saranno pubblicate nella prestigiosissima collana dei Meridiani. E si chiede: la casa editrice di Segrate onora così gli scrittori più valenti, ma morti (salvo rare eccezioni). Gli altri racconti sono colpi da maestro. Leggeteli.

Ritorno. Dopo quattordici anni di assenza, Jahid, trapiantato nell’Illinois con moglie e figli, decide di tornare nella sua terra, la Palestina. Vuole visitare il padre malato, all’ospedale Meir (chiamato ormai Mustashfa). Porta con sé strumenti elettronici e cartacei per prendere appunti: a lui importa conoscere sogni, desideri e ricordi degli altri. Lo fa anche con suo padre, molto riluttante a qualsiasi confessione. Questa dolorosa e confusa permanenza nei luoghi della sua infanzia e adolescenza costituisce il nocciolo amaro di La traccia dei mutamenti, di Sayed Kashua, scrittore arabo-israeliano nato nel 1975 ( Neri Pozza, 239 pagine,17 euro). Tira è il villaggio dove è nato, ma Jahid ne resta lontano. Preferisce affittare una camera ammobiliata. A Tira sono troppi i ricordi – alcuni dei quali legati alla moglie – con cui fare i conti. È lì, per un incidente che all’inizio pareva giocoso, che si è sposato, spostando successivamente il suo baricentro emotivo dall’altra parte dell’oceano. Jahid è l’emblema del conflitto arabo-israeliano. Nell’Illinois vive praticamente separato dalla moglie, che vede regolarmente, ma con la quale ha legami slabbrati, inconsistenti. Vive rintanato in pochi metri quadrati, si guadagna da vivere scrivendo libri per altri. Se gli chiedono che cosa faccia, risponde evasivamente:«Sto lavorando a un libro». Se l’interlocutore insiste, Jahid si apre:«Sai che dopo quella storia (il matrimonio, ndr) non sono più capace di scrivere nulla che abbia a che fare con me stesso?». L’autore ricorda scontri e conflitti tra le due etnie. Il padre, che di lì a poco morirà, gli sbatte in faccia la verità: «Tu sei vittima delle tue storie». Kashua, con resoconti che si tengono lontano – almeno in apparenza – da qualsiasi lirismo, racconta un dramma silenzioso: lo sradicamento. Da sé e dai luoghi di speranza e di avvilimento.

Maresciallo. Due uomini, uno di mezza età e uno studente ventenne, si trovano in una palestra per una sorta di rieducazione ossea. Eseguono diligentemente gli esercizi indicati dalla titolare, l’affascinante Bruna, e lo fanno con «ipnotica rassegnazione». Nasce una sorta di amicizia. Il più anziano è un maresciallo dei carabinieri in pensione, Pietro Fenoglio. E ne ha di storie da raccontare (inevitabile, per il lettore, ricordare I racconti del maresciallo di Mario Soldati), sollecitato dal giovane che vuole capire i meccanismi delle inchieste, certe convergenze, errori e rimedi di indagine. Questo è l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, intitolato La versione di Fenoglio, (Einaudi, 167 pagine, 16,50 euro) già magistrato e parlamentare (per una legislatura), viso ormai noto ai più visto che è ospite molto richiesto nei dibattiti televisivi, durante i quali, con ferma pacatezza si scaglia contro il cattivo lessico delle leggi, lo strampalato modo di agire del ministero degli Interni e, più in generale, contro una legislatura (l’attuale) che pare spesso un teatro dei pupi. Fenoglio racconta parte della sua esperienza, con particolare attenzione a quei casi in cui si poteva facilmente incappare in errori giudiziari. Insiste su una regola non scritta: «Bisogna sforzarsi di cambiare punto di vista». A volte basta un particolare e un dubbio di un collega. Carofiglio ha accennato a un caso di questo genere, che ha salvato un innocente, durante Otto e mezzo, trasmissione televisiva condotta da Lilly Gruber, davanti alla quale compare spesso incarnando l’esattezza e il rimprovero. Il maresciallo Fenoglio è abbastanza acculturato, e riporta una frase di Einstein: «La pazzia è continuare a fare la stessa cosa aspettandosi risultati diversi. Il maresciallo confida all’amico di palestra, sempre più affamato di storie vere, di aver accarezzato da giovane il desiderio di scrivere, di fare il giornalista. Abbandonato poi per volere del padre. Il leit motiv del maresciallo si concentra su un’attenzione a 360 gradi, sulla libertà di sganciarsi dall’ovvio. Anche nell’esame di testimonianze-chiave, «in modo da ridurre il rischio delle falsità involontarie» sempre all’angolo.

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