“Tutti i frutti del Ceppo” /2
Ode ai frutti d’oro
Da Virgilio a Quasimodo. Oggi a Buggiano Castello si leggono versi ispirati alla natura e agli agrumi. Il poeta Giancarlo Pontiggia, vincitore del Premio Ceppo Selezione Poesia 2019, è l’autore di una lecture dedicata a duemila anni di tradizione letteraria su questo tema. Eccone un brano…
In occasione del secondo evento di “Tutti i frutti del Ceppo”, intitolato “Poeti italiani nati negli anni 50 e 60” (a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi) nell’ambito della biennale “La campagna dentro le Mura” a Buggiano Castello (Pistoia), che si svolge oggi 5 maggio 2019, pubblichiamo un estratto dalla “Seconda Ceppo Poesia Arte Natura Lecture 2019”. È stata scritta da Giancarlo Pontiggia, Premio Ceppo Selezione Poesia 2019, su commissione del Premio Internazionale Ceppo (vedi il suo “Autoritratto in tre parole”, https://www.succedeoggi.it/wordpress2019/03/cosmo-cose-anime/). Da Virgilio a Quasimodo, duemila anni di tradizione letteraria in un’antologia di testi commentati, la lucida sintesi di uno dei maggiori poeti-critici odierni. (Leggi qui il testo completo: http://paolofabrizioiacuzzi.it/ceppo-2019-ceppo-pan-lecture-la-poesia-dei-frutti-doro-di-giancarlo-pontiggia/).
***
Alle origini della nostra storia è uno dei miti più potenti dell’antichità greca, quello dei frutti d’oro che si trovavano in un giardino divino ai confini del mondo, ed erano custoditi dalle Esperidi, le sacre ninfe figlie della Notte. Questi frutti li aveva donati Gaia, la dea Terra, per le nozze di Zeus con Era. Un geografo greco di età augustea, Strabone, ci parla delle isole delle Esperidi, che sono probabilmente da identificare con quelle di Capo Verde: siamo dunque all’estremità occidentale del mondo antico, là dove tutto si perde nelle acque sconosciute e infinite dell’Oceano, e dove, secondo la tradizione, è fissato il sacro confine del cielo. Il dato che più ci colpisce nella vicenda è il contrasto cromatico tra l’oro dei frutti e le figure femminili, che sono figlie della nera Notte: questi frutti sembrano spiccare con la loro luce contro la tavola buia di un cielo estremo e inaccessibile.
Naturalmente non sappiamo che frutti fossero quelli di cui ci parla il mito, ma sappiamo che la civiltà greco-latina non conobbe se non saltuariamente il mondo luminoso degli agrumi, che restarono pressoché ignoti fino a quando l’esercito di Alessandro Magno, verso la fine del IV secolo, di ritorno dalle terre favolose d’Oriente, non portò con sé gli alberi del cedro. E sappiamo in ogni caso che, nel momento in cui conobbero i primi frutti dei cedri, non poterono che assimilarli ai frutti d’oro dell’antica leggenda: come se il mito, nella sua remota sostanza, non attendesse altro che una conferma.
Sicuramente già nel I secolo d.C. le piante di limoni erano presenti nei frutteti e nei viridaria italici. Ce lo racconta, in particolare, una casa pompeiana, nota con il nome di Casa del Frutteto, dove una piccola camera è concepita come un vero e proprio pergolato immerso in un giardino con alberi e arbusti tra i quali volano merli, gazze, rondini e tortore. Tra piante di lauro e di mirto, palme, oleandri, ciliegi e corbezzoli, s’impone nella sua bellezza una pianta di limone ricca di frutti d’oro. Nondimeno, faticheremmo a trovare questi frutti nei versi di un poeta greco o latino dell’epoca: forse perché erano considerati – a causa della loro asprezza – frutti ornamentali, usati semmai, come ricorda lo stesso Virgilio nelle Georgiche (II, 126-128), per trarne pozioni medicinali:
La Media dà i succhi acidi,
e il sapore, persistente, del cedro,
che soccorre, e scaccia dalle membra
i neri veleni, quando
crudeli matrigne avvelenano una bevanda.
Torniamo dunque in Oriente, in Cina, anzi, dove i primi agrumi nacquero spontaneamente, per diffondersi poi in India e in Indocina, e nelle isole del vasto e proliferante Oceano Indiano. Le prime testimonianze storiche risalgono addirittura al 2.200 a.C., all’epoca dell’imperatore Ta Yu, al quale – come veniamo a sapere – le province tributarie inviavano in dono cesti di mandarini e di kumquat. Ma bisogna aspettare la fine della dinastia Chou, che dominò dal 1.027 al 256 a.C., per veder menzionate per la prima volta degli aranci, che il poeta Sung Yu, nel III secolo a.C., definì «l’albero prediletto dagli uccelli per edificare il loro nido». E dovevano passare almeno un paio di secoli per veder menzionati anche i frutti dell’arancio amaro. Quando, nel 1178 d.C., compare la prima monografia storica sugli agrumi, vergata da un prefetto della città di Wenchou, scopriamo che all’epoca già esistevano ventisette varietà di agrumi: eppure, tra di loro, non si trova traccia dei limoni, che richiedevano evidentemente un clima più caldo per attecchire, e si affermarono infatti non in Cina, ma nella penisola indocinese. Non deve dunque sorprendere se i primi componimenti poetici in cui cedri, mandarini e arance entrano in scena con la forza di una vera e propria epifania siano nati in Cina, e abbiano richiesto tanti secoli prima di attecchire nella memoria poetica dell’Occidente. (Nella foto Giancarlo Pontinia, ndr).
Un mandarino è al centro di questa delicata composizione di Liu Hsun, un poeta vissuto tra il 462 e il 521 d.C.:
Al mattino del primo gelo
il giardiniere lo stacca e ne fa dono:
il profumo si espande; appena schiusa,
la sua fragranza si riversa
sugli invitati.
Agli inizi dell’VIII secolo appartengono invece questi versi di Tu-fu, che dipinge due giardini di aranci con la delicatezza di un miniaturista di paesaggi incantati:
In piena primavera sugli argini di un fiume
due vasti giardini piantati con migliaia
di alberi di arancio: il loro denso fogliame
induce vergogna alle nubi; ci muoviamo
sopra la ricchezza dei petali caduti,
senza sfiorare la neve.
Presto i frutti degli agrumi cominciano ad animare, con la finezza di linguaggio e la forza di introspezione caratteristici della poesia orientale, anche i componimenti di tema erotico, come in questi versi di Tin-tun-ling, un poeta cinese vissuto fra l’VIII e il IX secolo d.C.:
Sola, nella sua stanza, una ragazza
ricama fiori di seta. Improvviso,
giunge il suono di un flauto,
lontano. Trema. Immagina
che un giovane le stia parlando d’amore.
Attraverso la finestra di carta, l’ombra
di una foglia di arancio ricade
sulle sue ginocchia. Socchiude gli occhi, pensa
che una mano le stia toccando
la veste.
Nei secoli difficili che caratterizzano l’Alto Medioevo dell’Occidente, gli agrumi cominciano ad essere coltivati solo grazie alla mediazione del mondo arabo, che introduce nella penisola iberica e in Sicilia, appena conquistate, sofisticate tecniche di irrigazione. Così Abd ar-Rahman, nato a Trapani, descrive gli aranceti di Sicilia:
Le arance dell’isola sono simili
a fiamme che razzano tra rami
di smeraldo; ma i limoni
riflettono il pallore di un amante
che ha trascorso la notte in lacrime
per il dolore della lontananza.