Visto al Teatro Vascello di Roma
La bisbetica domata in blu
Frutto di una collaborazione italo-svizzera, la “Bisbetica domata” firmata da Andrea Chiodi si distingue per il suo cast tutto al maschile e il suo ritmo travolgente. Nella parte della protagonista femminile c’è il brillante Tindaro Granata, che con questa performance è stato finalista al Premio Ubu 2018
Misogino, spregiudicato, e a tratti apertamente crudele, la Bisbetica domata è uno dei testi più controversi usciti dalla penna del Bardo. Le tre storie che lo compongono, e che si uniscono secondo il meccanismo delle scatole cinesi, sono tutte dominate da personaggi opportunisti e senza scrupoli, mossi da logiche individualistiche e perciò destinati a scontrarsi tra loro. Micce del conflitto tra le varie figure sono le due protagoniste femminili, Bianca e Caterina, insieme alla ricca dote che il loro padre Petruccio ha messo in palio per chi le voglia sposare. Se la prima delle due, docile ed ubbidiente, innesca la competizione di Gremio, Ortensio e Lucenzio, che insieme ai loro servi si sfidano a colpi di travestimenti e inganni reciproci pur di entrare nelle grazie della fanciulla e convincerla a sposarli, la bizzosa e intrattabile primogenita viene corteggiata dal cinico Petruccio, disposto ad affrontare il famigerato carattere di lei pur di assicurarsi la sua eredità. Quest’ultimo è l’episodio che dà il titolo all’intero dramma, in quanto Petruccio, per piegare Caterina alla sua volontà, si ripromette di educarla (ma il titolo inglese parla eloquentemente di “addomesticamento”), seguendo l’inveterato pregiudizio aristotelico che vedeva nella donna un essere inferiore da plasmare grazie all’intervento dell’uomo. A queste due storie di cupidigia e sopraffazione si aggiunge la cornice su cui si apre e si chiude il dramma, che racconta il tiro crudele che una comitiva ha deciso di giocare a un povero squattrinato facendogli credere di essere in realtà un facoltoso nobiluomo (quella stessa beffa immortalata dall’episodio del carbonaro nel Marchese del grillo di Mario Monicelli). Per quanto irresistibile, la comicità di The Taming of the Shrew si vela quindi di un retrogusto amaro – come quasi sempre accade in Shakespeare – e il riso si associa alla triste constatazione delle inevitabili tensioni insite nella società e nei rapporti tra i sessi.
La regia di Andrea Chiodi, che ha debuttato nel dicembre 2017 ed è stata prodotta da LuganoInScena e dal Teatro Carcano di Milano, prende di petto tutti gli snodi più problematici di questo testo nel tentativo non di edulcorarli ma di restituirli nella loro dirompenza allo spettatore contemporaneo. In primo luogo, la scelta di affidarsi a un cast tutto al maschile non è solo un recupero filologico del teatro elisabettiano (in cui – come è noto – anche i ruoli femminili erano impersonati da uomini), ma appare piuttosto un mezzo che, attraverso l’inversione di gender dei ruoli tradizionali, sollecita lo spettatore a interrogarsi sui rapporti difficili tra uomo e donna. Nel difficile ruolo di Caterina c’è un eccezionale Tindaro Granata, già diretto da Chiodi nella Locandiera del 2015 e che, con la sua interpretazione della bisbetica, si è conteso qualche mese fa il Premio Ubu 2018 per il miglior attore. La sua recitazione, prendendo alla lettera il verbo “to tame”/“addestrare” utilizzato da Shakespeare, enfatizza proprio i tratti animaleschi del personaggio: Granata abbaia, cammina a quattro zampe e al guinzaglio, mangia dalla ciotola, mentre la sua controparte femminile (Rocco Schira come Bianca) indossa emblematicamente come maschera il muso di una volpe. Con questa scelta registica, il feroce pregiudizio anti-femminile che muove tutti i personaggi viene quindi esplicitato allo spettatore, chiamato a riflettere sul secolare squilibrio che ha dominato le interazioni tra i generi. I pretendenti delle due fanciulle sono vestiti con una giacca nera in stile elisabettiano che riporta sul retro il loro nome e un numero, non solo per rendere facilmente identificabili i protagonisti di questa trama complessa, ma piuttosto per rappresentarli come una squadra di calciatori in competizione per il possesso delle donne. La costumista Ilaria Ariemme fa esibire a Caterina una maglietta con la scritta eloquente Girls support girls, che esemplifica l’isolamento della donna in una società maschilista e patriarcale. Lo scontro tra i sessi raggiunge l’apice nella celebre scena a due tra Caterina e Petruccio (impersonato da un eccellente Angelo Di Genio), in cui i due attori superano egregiamente un tour de force fisico ancor prima che interpretativo e strappano un meritato applauso a scena aperta. Minimali ed essenziali, le scene di Matteo Patrucco isolano i personaggi con le loro dinamiche e mettono in risalto alcuni oggetti emblematici, come la mazza da baseball che impugna Caterina in sua difesa e le due scale a castello che rappresentano metaforicamente la scalata dei personaggi all’eredità di Battista. Interessanti, infine, sono anche le scelte musicali di Zeno Gabaglio, che ha scelto come intermezzi celebri brani pop, da Caterina e Magic Moment di Perry Como a Love me Tender di Elvis Presley.
In questa rilettura del classico shakespeariano i cinque atti originari vengono fusi in un atto unico di due ore senza intervallo, che procede a ritmo serrato senza mai annoiare grazie alla perfetta sincronia di tutti gli attori. Peccato per l’utilizzo del sistema di amplificazione vocale, che compromette il timbro dei singoli attori e non pare giustificato né dalla scelta degli interpreti (tutti attori di professione) né dalle dimensioni del teatro. La messinscena capitanata da Chiodi e Granata riesce in ogni caso nel suo intento di ridare attualità al testo del Bardo, senza depotenziare i suoi contenuti più anacronistici o lontani dalla sensibilità di oggi, ma anzi sfruttandoli come uno strumento per conoscere l’eterno scontro dialettico tra uomo e donna.
Ph. Masiar Pasquali