Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Argentina di Roma

Violoncello in tutte le lingue del mondo

Chiude trionfante la stagione della Filarmonica Romana il violoncello di Mario Brunello affiancato dal Coro del Friuli Venezia Giulia. Spaziano dal repertorio classico alle composizioni novecentesche e contemporanee offrendo una serata raccolta e intensa, vibrante e coinvolgente

Chioma canuta e barba bianca, fa il suo ingresso sulla scena con l’andatura posata e serena del saggio: Mario Brunello, classe 1960, è un guru del violoncello. Un eremita e un penitente, interamente votato alla dea Musica. È un mistico e un visionario, oltre che un virtuoso dello strumento. Insieme al Coro del Friuli Venezia Giulia, diretto da Cristiano Dell’Oste, chiude la stagione 2019 della Filarmonica Romana al Teatro Argentina di Roma. Giovedì 11 aprile il Maestro Brunello e il Coro del Friuli hanno eseguito un programma multiforme, con incursioni dal Settecento di Bach al Novecento delle sperimentazioni avanguardistiche e dei revival classici.

Apre la serata Fratres (1977) dell’estone Arvo Pärt, un ondeggiare in crescendo e accelerando incalzante del violoncello, cui si sommano le vocalità minimaliste del coro, con un’alternanza tra dissonanze graffianti e momenti di lirismo puro, pizzicati e doppie corde solenni: il risultato è il raccoglimento e il pathos della genuina musica sacra, l’ascesi l’approdo finale. Seguono il mottetto Singet dem Herrn nein neues Lied (“Cantate al Signore un nuovo cantico”, 1727) e la Ciaccona in Re minore (1720) di Johann Sebastian Bach. Testi dai Salmi 149 e 150, da una parte, e una sovrapposizione, insolita ma filologicamente possibile, del corale luterano Christ Lag in Todes Banden (“Cristo giaceva nei lacci della morte”). Dalla miniera d’oro delle partiture bachiane, Brunello e il Coro friuliano scelgono e presentano due pagine di alto valore musicale, complete delle sfumature dell’animo umano: la gioia e la riconoscenza, il dolore e la rassegnazione. A conclusione della prima parte del concerto, l’omaggio del compositore John Tavener alla poetessa russa Anna Akhmatova con Akhmatova Songs (1993). Sei liriche della poetessa dedicata a suoi illustri colleghi e predecessori (Dante, Pushkin, Pasternak) con esiti che hanno il gusto arcaico del folklore e dei canti popolari, ma anche delle canzoni dei troubadours, pur non disdegnando l’impiego delle tecniche dissonanti dell’avanguardia. Accompagna il violoncello di Brunello il soprano Karina Oganjan, ideale incarnazione di Akhmatova.

L’intonazione mistica e raccolta, di una sacralità laica che oltrepassa i credo delle singole religioni, prosegue nella seconda parte del concerto con il Requiem (2004) dell’australiano Peter Sculthorpe e con Muss es sein (1975) di Léo Ferré, per violoncello, coro e una voce registrata dal ghigno satanico e folle tipico del cinico e del visionario. Ma l’intonazione del guizzo finale con cui si arriva alla conclusione è di tutt’altro spessore. Flows (2018) di Valter Sivilotti, infatti, è un moderno inno alla gioia e all’inclusione. Ispirato al tema caldo dell’immigrazione, rappresenta un flusso, di movimento e di uomini, di culture e di lingue. Soprattutto di lingue: in un cocktail sapiente ed equilibrato, dialogano e si incastrano Be Aware di Rokia Traoré, Immigrant Song dei Led Zeppelin, Englishman in New York di Sting, canti della tradizione mongola, zimbabwana e kazaka. L’incomunicabilità naturale di questa torre di Babele musicale si traduce in un godibilissimo e travolgente brano di musica per violoncello, coro e percussioni.

La scelta del repertorio e l’interpretazione del solista e del coro mostrano una perfetta integrazione delle diversità strutturali degli elementi, delle abilità e dei brani. Il violoncello di Brunello e il Coro del Friuli si mostrano a loro agio con il tedesco luterano di Bach, con il russo di Akhmatova, con l’estone di Pärt, con il melting pot di Sivilotti: suonano in tutte le lingue del mondo.

Ph. Max Pucciariello

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