Arturo Belluardo
A proposito di “Un giorno verrà”

Storia & Feuilleton

Il nuovo romanzo di Giulia Caminito scava nelle nostre radici andando a ritrarre un catalogo di disperati e diseredati del primo Novecento: il lato umano della storia si racconta grazie a una lingua potente

Dopo il buon successo ottenuto con La Grande A, Giulia Caminito torna in libreria con Un giorno verrà (Bompiani € 16), romanzo con cui la trentenne scrittrice romana continua a indagare la sua costellazione storica familiare: se ne La Grande A si era dedicata, con la storia del padre, alle ex-colonie italiane in Africa Orientale, con la sua nuova fatica, la Caminito si dedica alla famiglia della madre, anarchici marchigiani di Serra de’ Conti durante il primo ventennio del secolo scorso.

In realtà, Caminito non segue nulla dell’agiografia familiare e, più che un romanzo storico, inventa una vicenda che colloca nella Storia. Non le interessa indagare il fiume degli avvenimenti, ma immergervi i personaggi, fino a farveli affogare: i suoi uomini e le sue donne muoiono di guerra e di Spagnola, di tumulti anarchici e di puzza di convento, appesi con una corda a una trave o ammazzati di botte. Quella che è immediatamente evidente è l’analisi dei rapporti di potere: analisi dura e pura, senza mezzi termini, aut aut, lotta anarchica contro l’oppressione monarchica, sassaiola di proietti e strali contro il dominio vescovile.

Il fulcro del romanzo è la famiglia Ceresa, famiglia bastarda e spuria, fatta di figli maledetti e raccattati tra l’immondizia della Storia: un capostipite anarchico, il nonno Giuseppe, inseguito dai cani savoiardi che lo costringono all’esilio; il figlio Luigi, fornaio sporco e violento animale alcolico, la moglie Violante, cieca e pazza, e una schiera di figli che appaiono e muoiono o sono condannati all’infelicità: tra questi Nicola, il ragazzo di mollica, nevrastenico e fragile, Nella, sfrontata e beffarda e destinata alla clausura e infine l’anarchico Lupo, corda di violino ribelle, pronto ad azzannare e ad accarezzare con tenerezza. Un Olmo Dalcò, l’eroe comunista del Novecento di Bertolucci, cupo e introverso, bestiola ferita strappata troppo presto al seno materno, con il cuore votato al ribellismo e all’amore color viola verso il fratello Nicola.

E poi un prete infingardo, Don Agostino e la bellissima Moretta, suor Clara, abbadessa di clausura, nera del Sudan, musicista eccelsa e in odore di santità. Monaca di clausura ricalcata, lei sì su un personaggio realmente esistito, Zeinab Alif “per tutti Suor Maria Giuseppina Benvenuti, la protettrice del convento”, talmente idolatrata dagli abitanti di Serra de’ Conti da scatenare una rivolta popolare contro la decisione del vescovo di chiuderne il Monastero. Ed ecco come descrive l’insurrezione, con prosa preziosa, la penna di Giulia Caminito: «La gente urlò: Andatevene, la gente li chiamò maledetti e assassini e criminali, una fila compatta di donne coi cesti pieni di pietre andò loro incontro e con la mira precisa di chi è furioso tornò a colpire. Lanciarono sassi sui mariti morti e i figli dispersi, sui campi dei mezzadri abbandonati, sui signori che chiedevano raccolti anche in tempo di guerra, sulle razioni di cibo sempre più scarso, sui bambini malnutriti, sulle notizie dal fronte che non arrivavano mai, sulle malattie che li stavano colpendo, stanchi, distrutti, dimagriti, senza forze per rispondere alle scelleratezze del mondo».

Ogni aggettivo diventa pietra scagliata contro il sopruso, estremo di parabola a scalfire il moloch dell’impietà.

Le vicende corali dei personaggi si snodano lungo il filo rosso del feuilleton, con continui e atroci colpi di scena, quasi la Caminito abbia voluto rievocare, a un secolo di distanza, un genere letterario allora in voga e oggi infine riproposto nella narrazione seriale di alta qualità. Ma i protagonisti di Un giorno verrà sono molto più miserabili di quelli di Hugo, sono privi del pathos eroico, sono vittime atroci della Storia e del Potere e si avvinghiano alla vita, alla sopravvivenza con unghioli e denti da latte.

E proprio per non rischiare la telenovela, in una vicenda intricata di stupri e agnizioni, che Giulia frantuma la struttura della sua storia, ricorre alla frammentazione, portandoci avanti e indietro nel tempo, alludendo e provocando, quasi a ridurre a notule di barthesiana memoria gli episodi narrati. Salvo poi dispiegarsi in pagine di lirica bellezza, quando descrive la retroguardia di fango e merda delle trincee della Prima Guerra Mondiale o il devastante vento dell’epidemia di febbre spagnola che falcidia campagne e coloni.

Ma quello che colpisce nella narrazione della Caminito è l’uso del linguaggio, metaforico e controllato, pieno e asciutto, ai limiti dell’asprezza. Stile che spalanca mondi e fughe d’immagini in prospettiva. Vediamo il prete Don Agostino che si allontana con passi lunghi e amari, e già ne intuiamo il passato e il futuro vigliacchi, carichi di colpe che pesano sulla schiena come fardelli. E in contrappasso la pìetas di Suor Clara, la Moretta, nei confronti della consorella suicida: «Suor Clara aveva posato la sua mano su quella di Suor Evelina, mano gelida, mano guasta, mano da vermi e lombrichi, mano da suicida, e le aveva detto: Non preoccuparti, cara, nessuno ti porterà più via».

E, infine, l’uso staccato e percussivo delle parole nel bellissimo incontro tra il bambino Lupo e un cucciolo di lupo ferito, che addomesticherà al fianco suo e di Nicola, battezzandolo Cane.
«Il lupo, grigio predatore della montagna, giovane e piccolo, con le guance bianche e i ciuffi di pelo sul dorso rossicci per colpa del sole, ringhiava, basso, di gola, finché non si abituò a quel bambino in braghe sporche e faccia insolente, e smise.
Si studiarono allora, per poco. Lupo bambino fece un passo, l’altro ringhiò di nuovo, Lupo bambino attese, finché l’altro non smise, e poi ancora, iniziò la loro danza.
Passo. Ringhia. Pausa.
Passo. Ringhia. Pausa.
Passo. Ringhia. Pausa.
Passo. Ringhia. Il bambino gli fu sopra».

Ed è proprio in questa tensione linguistica, in questa dicotomia erotica che ferisce e sana il legame tra i due (non) fratelli Nicola e Lupo, in questo filo rosso che oppone lotta anarchica a reclusione monastica, che sta il vero nucleo di diamante di questo romanzo.

Se Un giorno verrà è, come da strillo in copertina, «un romanzo di fede, speranza e anarchia», è anche parabola di avvenire della scrittura, scrittura che vorrebbe abbandonare le titubanze biondicce e intellettuali di Nicola Ceresa, quello che cade e ha paura, scrittura che vorrebbe addentare la vita e il potere con le grinfie di Lupo, e che in questo continuo andirivieni, in questo ondeggiare mentre scende le strade del paese, in questo rimbalzo di parole, palle d’avorio che carambolano in traiettorie precise e casuali, trova, fatale e fatato, il suo maturo compiersi.

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