Luca Zipoli
Visto al Teatro di Tor Bella Monaca di Roma

Zio Vanja terremotato

Lontano solo geograficamente dalle platee storiche della capitale, il teatro alla periferia est di Roma si conferma un polo culturale di spessore notevole nella realtà capitolina. A marzo, ha riproposto “Uno Zio Vanja”, l’interessante adattamento del dramma cecoviano che Vinicio Marchioni ha firmato per il Teatro alla Pergola di Firenze

180 mila presenze dal 2013 a oggi, 2.400 biglietti staccati dall’inizio della stagione 2018-2019, tutto esaurito per diversi titoli in programma questa primavera: sono questi i numeri incoraggianti del Teatro di Tor Bella Monaca, nella periferia est di Roma a due passi dal Grande raccordo anulare. Il teatro, che ha aperto i battenti nel 2005, era stato voluto dalla giunta Veltroni per essere un presidio culturale di un’area a lungo abbandonata a se stessa, ma negli anni ha finito per diventare punto di riferimento per tutta la città. E i dati positivi lo confermano. A enunciarli è stato il direttore organizzativo del Teatro, Filippo D’Alessio, qualche istante prima del debutto di Uno Zio Vanja, spettacolo in tournée in diverse città italiane e che ha fatto segnare un nuovo record di presenze nella sala. Il direttore ha ringraziato gli spettatori per la loro partecipazione entusiastica alle attività del teatro, rivendicando con il dovuto orgoglio il percorso fatto dal circuito dei Teatri in Comune, la rete che raggruppa i palcoscenici ‘minori’ della capitale e che però negli anni hanno saputo imporsi come protagonisti della realtà culturale romana.

Adattato da Letizia Russo per la regia di Vinicio Marchioni, Uno Zio Vanja è una rilettura del classico di Antonin Cechov che ha debuttato nel gennaio 2018 al Teatro alla Pergola di Firenze, prodotto da Khora Teatro in coproduzione con la Fondazione Teatro della Toscana. «Volevo solo dire alla gente in tutta onestà: guardate, guardate come vivete male, in che maniera noiosa». Le parole dell’autore russo non lasciano dubbi su quali fossero le sue intenzioni nella scrittura del dramma: sfruttare una vicenda piuttosto banale legata all’eredità di una tenuta in campagna per rappresentare lo squallore e la mediocrità della vita borghese. Da Astrov, il medico del paese che si lamenta della noia del suo lavoro senza però fare nulla per cambiarlo, a Sonia, la fanciulla innamorata del medico senza essere ricambiata e che preferisce continuare a sperare più che accettare la realtà. Dal professore, che a fronte della fama di intellettuale che lo ammanta è interessato solo al tornaconto economico, a Vanja stesso, inetto e incapace anche di uccidere con un colpo di pistola il rivale in amore. Il dramma di Cechov è formato da personaggi abulici e sfibrati, intimamente infelici e inclini a sprofondare nella loro malinconia piuttosto che ad agire per cambiare la loro situazione. Tutti loro vivono una vita insoddisfacente e vuota, ma sono incapaci di fare alcunché per cambiarla perché ingabbiati nel pensiero delle occasioni mancate e delle aspirazioni frustrate. Una situazione, che a ben guardare non riguarda solo i possidenti russi di fine Ottocento immaginati dallo scrittore, ma riflette una condizione universale, simile a molte vite della società contemporanea.

Per ridare attualità e pregnanza ai temi della pièce, il regista ha deciso di trasporre la sua storia nell’Italia del Novecento, e più precisamente in un villaggio probabilmente del sud (Nina Raia nei panni della balia aggiunge un inconfondibile accento meridionale) appena devastato dal terremoto. Lo spettacolo si apre, infatti, con l’ascolto di una telecronaca giornalistica sulla calamità appena accaduta, e la scena, realizzata da Marta Crisolini Malatesta, è chiusa sullo sfondo da una parete diroccata e diverse macerie a terra. Il paesaggio diviene specchio della precarietà esistenziale dei personaggi e incornicia in maniera potente la loro insicurezza di fronte alla realtà. In questo contesto di disastro ambientale risalta ancora più vistosamente il velleitarismo del dottor Astrov (un Francesco Montanari in ottima forma), che nel riadattamento viene attualizzato come un ambientalista di belle parole e pochi fatti che per l’appunto appare clamorosamente sconfitto da quella natura che vorrebbe salvaguardare. Oltre all’ambientazione, il secondo elemento innovativo della rilettura è il sottotesto meta-teatrale che viene aggiunto al racconto tradizionale. Nell’idea di Marchioni e Russo, infatti, la tenuta di campagna si trasforma nel teatro del villaggio. La struttura è stata portata avanti per anni, con sforzi e sacrifici, da parte di quella famiglia che ora il Professore di Storia del teatro (Lorenzo Gioielli), vedovo della compianta prima attrice della compagnia, vuole sfrattare per cedere il palco alla sua nuova moglie attrice (Milena Mancini). Alle pareti rimane la locandina dell’ultimo spettacolo di Vera, la sorella di Zio Vanja ammirata da tutti, testimonianza delle glorie della sala, e che restituisce l’evidente contrasto tra la famiglia, legata ancora al rimpianto del passato, e il professore senza scrupoli, che della memoria dell’attrice amata è pronto a disfarsi in vista di una nuova fonte di guadagno.In questa interpretazione assume anche un nuovo significato il fallimento esistenziale di Zio Vanja, impersonato con grande efficacia dallo stesso Vinicio Marchioni, che, dopo aver abbandonato la carriera di attore a causa della sua inettitudine, si vede ora rubare la donna da sempre amata da parte di chi del teatro ha un’ottica solo utilitaristica. Svanita ogni speranza in un presente di dolore e amarezza, a Sonia e suo zio non resta che ritornare alla loro vita di sempre, fatta di grigio lavoro e poche aspirazioni di salvezza. È proprio questo il messaggio dell’intenso monologo che chiude il dramma, che è stato interpretato magistralmente da Nina Torresi ed efficacemente sottolineato dalle scelte musicali di Pino Marino.

La rilettura di Marchioni e Russo riesce così a riportare all’attenzione del pubblico il dramma cecoviano in tutto il suo significato e il cast si rivela pienamente all’altezza di questa pièce lunga e complessa. L’auspicio è che da questa prima esperienza di successo possa iniziare un percorso di approfondimento di altri titoli del drammaturgo russo, che ne continuino a mostrare la modernità e gli intenti sempre attuali: mostrare «gli uomini per quello che sono, non per come dovrebbero essere».

 

Ph. Valeria Mottaran

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