Cronache infedeli
Sipario sui Clinton
Lui sempre più curvo sulla sua ennesima autobiografia, lei quai un "presidente in esilio": la favola dei Clinton è finita con l'addio di Hillary alla nuova rincorsa. Storia di una dinasty affascinante e controversa
New York, passeggi lungo la Broadway e ti imbatti nei manifesti di Hillary e Clinton: un’opera nuovissima in cartellone da qualche giorno al Golden Theater. La locandina è esplicita: «Se qualcosa vi suona familiare, non stupitevi: in un universo di infinite possibilità qualsiasi cosa può succedere. Hillary e Clinton esamina il meccanismo politico di un matrimonio, i ruoli sessuali, i limiti di un’esperienza, con uno sguardo approfondito e attuale a una dinastia americana in crisi». Chiaro, no? Come chiara e abrasiva è la definizione di tragedia comica («comic tragedy»).
Potenza dell’arte o delle coincidenze, proprio mentre a Broadway gli attori interpretano ogni sera la favola bella di Hillary e Bill, nella vita reale cala il sipario su una coppia, una dinastia politica, un pezzo di storia americana che ci ha tenuto inchiodati per oltre trenta anni. Hillary alla fine ha gettato la spugna, rinunciando ufficialmente a correre per la Casa Bianca nel 2020. E il suo addio è ruvido, quasi risentito: «Non vado da nessuna parte, non mi candido».
Nei giorni scorsi il New York Times ha intitolato appunto Sipario per i Clinton un pezzo al vetriolo scritto dalla regina dei commentatori politici americani, Maureen Dowd. Cattiva, cattivissima Maureen: «Nei 27 anni in cui ho seguito Bill e Hillary, ho sperimentato una intera gamma di emozioni. Di volta in volta mi hanno divertita, esaltata, disgustata. Ma ora sento per loro solo un sentimento di pena».
Nessuna pietà per i vinti. E Bill e Hillary, che furono la coppia più potente d’America e dunque del mondo, fanno ormai parte della schiera dei vinti. Il clintonismo è una pagina chiusa. Non esiste più quel presidente affabulatore, quel giovane uomo vigoroso che tanto ci affascinò negli anni Novanta. Non esiste più il «primo presidente nero d’America», il riconoscimento paradossale che William Jefferson Clinton portava sul petto come una medaglia. E non esiste più quella piccola, affamata, scanzonata dinasty di provincia, che mosse da Little Rock, Arkansas, alla conquista del sogno americano.
Viviamo, intendo noi occidentali, la fine di un’epoca che anch’essa tanto ci illuse. Il clintonismo in America, il blairismo nel Regno Unito, il pragmatismo del ruvido e affabile herr Schroeder in Germania: giovani rappresentanti di una sinistra moderna che sposava le ragioni del liberalismo, manovratori di una locomotiva che avanzava in tutto il mondo sui binari di acciaio della globalizzazione.
Ho ancora nella testa e nel cuore le parole con cui Bill Clinton all’inizio della sua avventura descrisse il nuovo corso mondiale. Volle andare in Vietnam, il giovane presidente, per chiudere la ferita di una guerra perduta e annunciare da lì il nuovo patto planetario. Ad Hanoi – di fronte ai dignitari di un inedito comunismo capitalista – così descrisse il destino comune di Est ed Ovest: «La globalizzazione è come la pioggia e come il vento, non si può fermare, non si può domare, non si può imbrigliare».
Il mito cominciò a scricchiolare ben prima del tramonto politico. Bill conquistò a mani basse i suoi due mandati, ma rischiò di inciampare in una sordida storia di sesso orale tra le scrivanie della Casa Bianca, di abbracci clandestini, di gonne macchiate di sperma gelosamente custodite nel freezer. Noi giornalisti eravamo a Cuba nel gennaio del 1998, a testimoniare lo storico incontro tra i due grandi vecchi del comunismo e del cattolicesimo, e i colleghi che arrivavano da Washington scommettevano sull’ormai prossimo impeachment, sull’inevitabile condanna del reprobo da parte dell’ America puritana e calvinista.
Nulla di tutto questo. Bill sopravvisse alla tempesta, grazie soprattutto al sacrificio di Hillary: la first lady tradita che si schierò a fianco del fedifrago. E sembrò più una cambiale a rendere che un atto di amore. Rigida, secchiona, fredda, calcolatrice, Hillary Rodham Clinton pose allora le basi di una piccola dinasty americana. Con quell’unione traballante, con troppi rancori nascosti sotto il sorriso, e con quella unica figlia, Chelsea: troppo timida, troppi denti, troppe lentiggini, troppi capelli. Ben altra cosa era stata la tragica dinasty dei Kennedy: nonni, fratelli, figli, amanti, sangue e dolore, la seduzione e il cuore di tenebra del potere. E altra cosa sarà poi la dinasty repubblicana dei Bush: i pozzi petroliferi sotto il grande cielo del sud, il ranch nel Texas, la madre padrona, il capostipite eroe dei cieli, il figlio sbagliato che diventa presidente.
Negli anni, un Bill incanutito ma ancora brillante si era riconvertito in sparring partner per la grintosa Hillary. Prima sfidanti sconfitti, poi grandi elettori di Barack Obama. La macchina Clinton girava a pieno ritmo, si riempivano le sale e gli stadi per ascoltare l’ex presidente più amato, e quella donna accanto a lui, con il sorriso tirato, i gesti studiati, il discorso politico corretto, solo una venatura di femminismo. Era troppo forte, Barack, e così Hillary si acconciò a darsi da fare come Segretario di Stato. Intanto studiava da presidente, mordeva il freno, in attesa della seconda occasione.
«È un lavoro duro, ma qualcuno deve pur farlo!». Per quindici anni la coppia si era dedicata a costruire una seconda occasione: i biografi hanno contato oltre 700 speeches ben pagati in giro per l’America e il mondo, più di 240 milioni di dollari accumulati a colpi di lauti onorari, un esercito di collaboratori, un irresistibile pacchetto di mischia. Nell’ultima tappa di questa loro rincorsa, Hillary e Bill – e noi tutti con loro – condividevano una sorta di confortevole filosofia della storia: dopo un presidente nero, l’inarrestabile progresso avrebbe regalato all’America un presidente donna.
La fine è purtroppo nota: alle urne Hillary conquista tre milioni di voti in più del suo avversario, ma il Congresso incorona presidente l’impresentabile “The Donald”, il bancarottiere, il predatore sessuale, l’imbarazzante gaffeur. Sipario: l’avventura di questa piccola dinasty è durata venti anni ed è stata in ogni caso una grande avventura. Bill è ormai ultra-settantenne, sempre accompagnato da un velo di tristezza, Hillary appesantita, a volte brusca. Scrive nel suo impietoso ritratto Maureen Dowd: «Lei si muove con l’aria di un presidente in esilio».
Non c’è cosa più grama, nell’America di sempre, che essere considerati losers, perdenti. E il passato non passa mai: pochi giorni fa Rebecca Kirszner Katz, senior strategist del Partito democratico, ha messo una pietra tombale sulle speranze della coppia: «L’affaire Lewinsky fu un abuso di potere che non doveva accadere, e se i Clinton non riescono ad ammetterlo più di venti anni dopo, è difficile pensare che possano far parte del futuro del nostro partito».
Oggi la rincorsa si ferma. Tanto lavoro in fumo, tante speranze, tante ambizioni, tanto ardore gettato al vento. Ultime notizie dalla famiglia: Bill sta per dare alle stampe un altro libro sulla sua esperienza, il quinto da quando ha lasciato la Casa Bianca nel 2001. Chelsea è incinta del terzo figlio. Hillary annuncia: «Continuerò a lavorare, a parlare, a schierarmi per i valori in cui credo». Sipario.