Anna Camaiti Hostert
A proposito de "Il vampiro dei titoli"

Abruzzese e i vampiri

Il celebre sociologo si diverte a confezionare una piccola raccolta di racconti dal tono fantastico ma ambientati in metropoli terribilmente autentiche. E che, sempre, paiono offrire una (affettuosa) sponda cinematografica

Il vampiro dei titoli. Un Prologo e quattro siparietti narrativi (Liguori, 60 pagine, 8,99 euro) è una raccolta di racconti brevi di genere fantastico di Alberto Abruzzese. Alberto Abruzzese non ha bisogno di presentazioni. È una delle menti più lucide, originali e versatili che abbiamo oggi in Italia. I suoi saggi di sociologia dei processi culturali e comunicativi, di analisi dei conflitti della modernità e postmodernità coprono un arco di circa 50 anni di attività. Su di essi si sono formate intere generazioni di studenti sul territorio nazionale: dall’università Federico II di Napoli, alla Sapienza di Roma, alla IULM di Milano.

In questo caso si cimenta con la narrativa e pubblica quattro brevi racconti che, afferma, sono “scomparsi persino dalla mia memoria”. Una celebrazione della città di Napoli che lo studioso ha profondamente amato e ama. Il loro significato si trova tutto nel suo non-Prologo dove l’autore a cui sono richieste poche righe che fanno da introduzione al piccolo volume non porta a termine il suo compito. E dunque non scrive il prologo che gli era stato richiesto. Più che per un gesto di disobbedienza, che peraltro Abruzzese ama molto, per una sorta di incapacità di vivere in un reale che non riconosce in un orizzonte umano e umanistico. Non può non venirci in mente il “benvenuti nel deserto del reale” del film Matrix. Non riesce a trovare le parole adatte a commentare la discrasia irreversibile tra quella che definisce “l’utopia umanistica” e un “immaginario collettivo più complesso e insieme fluido” che si è fatto più instabile come la natura umana “invasa come è da sé stessa per effetto delle sue metamorfosi tecnologiche”. E non gli è di aiuto neanche il suo personaggio Umberto U il vampiro del suo romanzo Anemia che scherzosamente, dice Abruzzese “ha declinato l’invito per… malattia”. Dunque nel suo non- Prologo Abruzzese ci mette di fronte a quella che ritiene una sconfitta, non solo perché non riesce a scrivere il suo prologo, ma soprattutto perché ci comunica un’afasia irreversibile per cui, non resta “che riderci sopra come Joker o privarmi una buona volta della parola come King Kong”.

È divertente citare l’inizio del non-Prologo: “Ore 17,29 di un giorno come un altro. Ma vissuto a Londra. E forse non a caso perché Londra è ovunque io sia, la mia metropoli fantasma, la più amata nella mia immaginazione”. Questo incipit ci dà già la cifra di interpretazione di questi racconti assieme agli altri luoghi di cui ci parla sempre nel non-Prologo. In primis Londra, storicamente la fonte precipua dei racconti fantastici. Del gotico horror di tutti i tempi. Poi c’è Napoli, la protagonista principale dei racconti, in cui l’autore ha insegnato per anni “Felicemente, posso dire, almeno nel senso in cui l’ambiguo e tracotante volto della felicità si mostra e maschera a Napoli: senza futuro e senza promesse ma, unitamente piena del suo nonsenso. Popolare cornucopia. La felicità di quella smorfia per cui non sai mai se essa rida o urli: antimoderna eppure due salti in là oltre il Progresso”. Ebbene, proprio queste parole dedicate e Napoli, definiscono lo spirito dei racconti. Ma c’è un terzo luogo che a me, toscana, è particolarmente caro: la Maremma. Nell’immaginario di Abruzzese l’ultima spiaggia, quella sotto Capalbio, dove va anche lui, è il luogo dove coesistono i conflitti tra generazioni che non riescono più a parlarsi. Vale ancora la vecchia definizione della Maremma come “terra di confino e di banditi” un retroposto un po’ isolato dal resto del paese, Oggi prigione dorata degli intellettuali di sinistra, ultimo luogo della terraferma, ieri inferno dove si andava a morire: due situazioni che segnano tuttavia la fine di un percorso.

C’è una cosa che rende Abruzzese una rara avis nel panorama intellettuale italiano: la sua eccentricità proprio nel senso di essere fuori dal centro dii se stesso, il non essere ripiegato e concentrato sul proprio ombelico. Non comune la sua capacità di scorticarsi vivo, il coraggio di mostrare la sua vulnerabilità. O come si direbbe in inglese “to show his guts”. Caratteristica che infatti appartiene a molti scrittori inglesi e americani. Me ne viene in mente uno per tutti: l’americano Elmore Leonard che scrive dei suoi personaggi e di se stesso con una lingua aspra, dura e senza compromessi. E soprattutto senza sconti

Ma veniamo ai racconti. Mi piace cominciare dall’unico che non ha Napoli come protagonista, ma New York, il secondo dei quattro. E inizio di lì proprio perché il suo titolo è tratto da un’espressione, Far flanella, che, come ci ricorda Abruzzese, rimanda al francese ‘flaner’ bighellonare. In Maremma tuttavia, è curioso, acquista il significato molto preciso di “pomiciare”. E anche se i preliminari, una sorta di “strusciamento” possono essere considerati, specie nella vulgata maschile, una perdita di tempo prima dell’atto sessuale vero e proprio, l’espressione ha di per sé una valenza erotica e di piacere.

Sta di fatto che udire l’espressione “far flanella”, nel senso di perdere tempo, da’ al protagonista, il professor Felpa (nome che è tutto un programma) rinnovata energia per compiere un’azione che, dopo molti anni, riuscirà a portare a termine proprio a New York nel giorno di Natale. Non posso svelarvi la trama del racconto perché ci regala una sorpresa finale, ma posso dirvi che, anche pensando al significato maremmano dell’espressione, contiene un elemento di piacere che se pure non è erotico, è certamente liberatorio.

Il primo racconto L’uomo dei lampi si svolge in treno, in un tempo sospeso tanto che potrebbe essere un episodio di Twilight Zone o di Hitchcock. Il protagonista deve trovare il titolo di una storia e si dibatte contorcendosi nella scelta che non gli viene facilmente. I suoi pensieri si dividono tra la donna con cui sta, Marta, e le immagini che il titolo deve evocare. Giunge finalmente alla conclusione che “l’uomo dei lampi”, mutuato dal mondo cinematografico, è perfetto. Per la produzione di lampi in scena c’è infatti bisogno di un artigiano davvero speciale a cui “viene affidata un’arma potente, una finzione che può uccidere in un solo attimo con un solo gesto. Basta che l’uomo tocchi se stesso o qualcun altro con quei suoi due bastoni [bastoni di legno terminanti a punta con due grandi chiodi da carpentiere collegati ai poli dell’alta tensione] ed ecco la morte. Una morte vera”. Qui l’autore fa accenno al legame implicito che la morte ha con “la dedizione dell’artigiano dietro al comando del regista” e in generale con la creazione artistica. Il protagonista e’ diviso tra un tempo reale e uno fittizio. Cosa gli succede? Dove si trova? Arriva davvero a casa dalla sua donna? Un tema, quello dell’incertezza del tempo reale, che mi pare attraversi tutti quanti i racconti.

Poi c’è Mostri dell’oltremare in cui si parla dell’esperienza di Galassia Gutenberg, l’iniziativa culturale che ha animato Napoli per molti anni, voluta e curata dalla casa editrice Liguori. “Un pezzo di Napoli che mi è restato nella pelle” che si confonde con la città stessa. Vale la pena di citare le parole visionarie dell’autore al riguardo. “Sono dentro una Fiera di Suoni e Luci. Fabbriche di fiamma: McLuhan all’inferno. E anche Beatrice. Gran Can Can napoletano. Senza nacchere. Forse senza neppure il Vesuvio. Un mare-oceano. Questo sì. Fontane a esedra, cubi d’oro, arene. Un ‘mondo novo’. Il Libro moltiplicato per se stesso. La Fiera delle Fiere. La Città delle Citta”. Lo so, mi troveranno steso a terra allo scalo della metropolitana…Con le spalle artigliate dalla scimmia dei lettori e scrittori di libri. Con gli occhi spalancati come la bocca di un pesce palla. Lo so. Sono un saggista apocalittico, un docente di fantasmatologia, uno specialista in alterazioni della percezione…Lasciatemi navigare oltremare. Amici miei, mostri carissimi eccomi. Prendetemi.” E infine l’ultimo Ricordo di un non ricordo che più che altro è una dedica a Napoli e alla libertà che la città regala a chiunque vi si rechi o vi abiti per un periodo di tempo. “Non c’è memoria che Napoli non divori. Napoli assorbe i corpi. Solo le cartoline turistiche hanno la superbia di ricordarla. L’immaginario invece si lascia assorbire nel suo paesaggio senza confini tra l’organico e l’inorganico e ci scompare”. Infatti produce una mancanza senza artigliare i fan alla sua memoria. Grande pregio, difficilmente raggiungibile e riassunto perfettamente dalle parole di Abruzzese: “Non ricordo Napoli, ma mi manca”.

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Alberto Abruzzese presenterà il suo libro al Macro di Roma, giovedì 7 marzo prossimo, alle ore 18 in compagnia di Gabriele Frasca, Andrea Malagamba e Gabriella Turnaturi.

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