Cronache infedeli
Venezuela, l’esodo
Viaggio al confine tra il Venezuela e la Colombia, lì dove la tragedia di un popolo distrutto è più evidente: un'umanità in fuga dalla corruzione e dalla miseria, che non sa più come immaginare il proprio futuro
L’autobus da Popayan a Cali è affollato. Intere famiglie, bambini che urlano, a ogni sosta venditori ambulanti che spalancano le portiere e si infilano tra i sedili, chiacchiere, sonno, musica sparata dagli altoparlanti, stanchezza. Ci attendono altre quattro ore di strada, il mio vicino di posto è un sessantenne alto e magro, viaggia in compagnia di un ragazzo silenzioso, tutto concentrato sui geroglifici del suo smartphone. L’uomo si presenta: si chiama Fernando, ha voglia di parlare, e così parliamo.
Lungo la via il bus sfiora lunghe file di persone: una folla in cammino, in processione, tutti incolonnati verso la medesima direzione, uomini donne e bambini che trascinano vecchie valige, vestiti poveramente: una piccola, silenziosa migrazione. Su molti zaini sventola una bandierina tricolore.
Dice Fernando: «Io sono venezuelano, come loro. Li vede? Vengono da Valledupar, da Cucuta, da qualche posto di frontiera lungo la penisola della Guajira. Ne hanno fatti di chilometri, e tanti ancora ne devono fare. Vengono a chiedere l’elemosina ai colombiani. Io, per dire, sono fortunato. Siamo scappati anche noi, tutta la famiglia. Abbiamo due figli, il piccolo è con me. Il più grande, che è medico, forse ha trovato lavoro a Cali. Mia moglie arriverà se dio vuole questa notte in aereo da Caracas. Così andiamo ad aspettarla. Anche per noi la vita in Venezuela si era fatta impossibile».
Vita impossibile, questo ti dicono tutti. Dall’inizio della crisi, quasi tre milioni e mezzo di venezuelani hanno abbandonato il paese: è il più grande esodo nella storia recente dell’America Latina. Sono dati ufficiali dell’Onu, che avverte: con questo ritmo si rischia di raggiungere quota cinque milioni, pari al 17 per cento della popolazione. Una enormità, nessun Paese al mondo può reggere a una emorragia umana di queste dimensioni.
Uno Stato fallito. Ancora l’Onu certifica la «distruzione materiale del Paese», con standard socio-economici che disegnano un profilo simile a quello di nazioni reduci da una guerra civile, come il Libano negli anni Ottanta o la Georgia e il Tagikistan dopo l’implosione dell’Unione Sovietica. Dal 2013, il prodotto interno lordo del Venezuela ha subìto un tracollo del 44,3 per cento. Solo l’anno scorso l’economia è crollata del 15 per cento. La brusca caduta della produzione di petrolio, gli investimenti privati ridotti a zero, il dissesto dei conti pubblici spiegano questa catastrofe. Alla fine della scala, il disastro economico ha investito come uno tsunami la carne viva del Paese. Non è più miseria: è pericolo di morte per fame, per abbandono, per malattie.
La famiglia di Fernando era classe media: lui pilota della marina mercantile, la moglie impiegata, un figlio medico. «Nel regime bolivariano essere classe media significava essere nemici del popolo. Così, prima hanno spezzato la classe media, attizzando l’odio sociale. Ci voleva un nemico da accusare per la catastrofe economica che si preparava». Il mio compagno di viaggio indica la lunga fila di persone che camminano ai bordi della strada. «Li guardi, ora. Quelli non sono classe media, sono popolo. Manovali delle città, operai senza più industria, contadini dei campi. Pensionati, casalinghe: gente che fino al 2013 magari aveva votato per Chavez, aveva creduto alle promesse del regime, e che ora fugge come la peste questo Paese e i suoi padroni».
I numeri sono esplosi. Iper-inflazione a un milione e trecentosettantamila per cento lo scorso anno (e la previsione di un aumento a trentuno milioni per cento) significa che la moneta nazionale, semplicemente, non esiste più. Significa, per esempio, che un semplice antibiotico costa l’equivalente di quattro salari minimi. «Un esempio teorico – sorride amaro il mio compagno di viaggio – perché le farmacie e gli ospedali da tempo non hanno più medicine. E i beni di prima necessità non arrivano più, i negozi sono vuoti. Abbiamo smesso di produrre, e non abbiamo denaro per importare dall’estero».
La crisi ha distrutto il lavoro, quel poco lavoro che esisteva ai margini della “grande mammella” della produzione petrolifera. Il tasso di disoccupazione, che nel 2018 è stato del 34,4 per cento, si sta impennando verso il 40 per cento. E ora, anche la “grande mammella” si è seccata. Pdvsa, la compagnia petrolifera di Stato, ormai appaltata a dignitari politici e militari, è a pezzi per l’assenza totale di investimenti, il nepotismo, la corruzione e la fuga degli esperti. Negli ultimi cinque anni, la produzione del crudo si è ridotta della metà. E questa metà vale ancora la metà, perché il prezzo del petrolio sul mercato internazionale si è intanto dimezzato.
Cosa fare? Il governo Maduro non ha una risposta che non sia militare. Chiude le frontiere in entrata agli aiuti umanitari, ma non può chiudere le frontiere in uscita per chi fugge. L’esodo finora ha funzionato come valvola di sicurezza per impedire che la caldaia esplodesse. Ma se supera la soglia critica anche l’esodo diventa un elemento di ulteriore instabilità. In più, il Fondo monetario internazionale avverte che la catastrofe venezuelana può costituire un elemento di infezione economica per tutto il continente. E le stime di crescita dell’America Latina per i prossimi mesi, già modeste, sono state “tagliate” da tutti gli istituti di controllo.
Periferia di Rioacha, capitale della Guajira. L’autobus che viene dal Sud si infila a passo d’uomo nel traffico caotico che conduce verso il centro. Alla nostra destra si spalanca una vasta bidonville. Baracche di legno marcio e cartoni, sentieri polverosi, cani smagriti che frugano in mucchi di immondizia, colonne di fumo che si alzano da falò maleodoranti, bambini seminudi affacciati alle porte. Su molti tuguri sventola la bandiera venezuelana. Qui si è fermata la risacca della fuga, in attesa di un nuovo cammino e nuove soste.
Leggi i giornali colombiani e avverti un brivido di paura. Alla lunga, questo Paese potrà reggere l’impatto dei profughi? Fino a ora i venezuelani in fuga sono stati accolti come fratelli, perché la Colombia conosce bene il dolore che deriva dalla violenza e dalla fuga. Questa è patria di “desterrados”, milioni di esseri umani strappati alla loro terra dalle armi dei guerriglieri e delle bande paramilitari.
Solidarietà, dunque. Vicinanza, pietà, accoglienza. Ma le cronache registrano sempre più numerosi episodi di insofferenza, incidenti tra i nuovi venuti, che sono ormai un milione, e i colombiani che stanno più in basso: i poveri delle campagne e delle periferie, il formicaio precario dell’ economia informale.
Quanto potrà reggere questa bonaccia è l’interrogativo del giorno, il timore che la destabilizzazione venezuelana porti il contagio oltre la frontiera. Un servizio del New York Times racconta la protesta e la rivolta dei residenti contro il primo campo di rifugiati venezuelani organizzato nei sobborghi di Bogotà. Una piccola folla tenta di bloccare l’arrivo degli autobus dei migranti. I cartelli esposti alle finestre del quartiere dicono tutto: «Benvenuti nella giungla», «vogliono rovinare la nostra comunità», «nemmeno un animale vorrebbe vivere qui».
L’autobus si ferma per l’ultima sosta. Siamo in vista di Cali, il viaggio è alla fine. Da buoni compagni di avventura, ci scambiamo dolci e raccomandazioni. Sul piazzale i ragazzi improvvisano dribbling e passaggi con un pallone rimediato da qualche parte. Fernando accende una sigaretta. Stasera – se dio vuole – la famiglia sarà di nuovo riunita. Non so come salutare, non so cosa dire. Azzardo: «I venezuelani non si meritano una tragedia così». Il mio compagno di viaggio scuote la testa e guarda il figlio che gioca: «No: ce la meritiamo, ce la meritiamo tutta, questa tragedia…».