Al Teatro dell’Opera di Roma
Bolena irretita
Dopo 40 anni torna sulla scena della capitale “Anna Bolena”, opera che attesta la compiuta maturazione creativa di Gaetano Donizetti. Un tributo di applausi per un'edizione di alta qualità (direttore Riccardo Frizza), anche se qualche buh è stato riservato ai creatori della parte visiva
Tre ore e quaranta, compreso un intervallo di mezz’ora. Ma trascorrono spedite: la vicenda è appassionante, la musica sublime. Al Teatro dell’Opera, in Roma, è in scena un nuovo allestimento di Anna Bolena, opera di Gaetano Donizetti (1797-1848). Lo spettacolo è in coproduzione con Lithuanian National Opera and Ballet Theatre di Vilnius. Erano quarant’anni che il titolo mancava dal palcoscenico della capitale, dove si erano finora avute due sole edizioni, nel 1977 con Leyla Gencer e nel 1979 con Katia Ricciarelli, nel ruolo eponimo. D’altra parte, soltanto in tempi recenti gli allestimenti di quest’opera si sono moltiplicati. Il Teatro dell’Opera propone l’edizione integrale, in linea con il gusto di oggi; e soprattutto rende giustizia a un binomio partitura-libretto che è di altissima qualità. Tanto che la coerenza e la temperatura drammatica dello spettacolo appaiono incalzanti, senza un attimo di calo, e fanno volar via la non breve durata.
Anna Bolena debutta nel dicembre 1830 a Milano, nel Teatro Carcano, e riscuote uno straordinario successo; il primo grande successo del trentatreenne Donizetti, dopo diversi cimenti giovanili. Alla base del trionfo c’è anche il libretto di Felice Romani, finemente versificato e ben congegnato drammaturgicamente. È sulla cresta dell’onda in quel tempo il letterato Felice Romani che, non per caso, negli stessi anni sviluppa importanti libretti anche per Vincenzo Bellini. Di Romani, infatti, è anche il libretto della Sonnambula, che Bellini presenta sempre nel Teatro Carcano nel marzo 1831, nella stessa stagione di Carnevale. Due successi contigui per due capolavori, che diverranno simboli del Bel Canto. Abilissimo a ingaggiare contemporaneamente i due giovani musicisti, l’impresario del Carcano, nel suo intento di far concorrenza e togliere spazio alla Scala. E non basta. A perfezionare la rivalità nell’accoppiata di autori, l’impresario garantisce a entrambi la stessa coppia di celebri protagonisti dell’epoca: Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini. Un derby tra compositori d’opera.
Questa edizione dell’Opera di Roma ci ricorda tangibilmente che la drammaturgia musicale di Anna Bolena attesta la compiuta maturazione creativa di Donizetti. L’impianto del lavoro poggia su pochi episodi, ma ramificati lungo snodi di ampio respiro tra arie a solo, pezzi d’insieme a due, tre o più voci, fino a maestosi concertati o a interventi corali di raccordo, che palpabilmente comunicano una compatta omogeneità espressiva. Ne consegue una linea di ininterrotta tensione musicale. Ed è merito della concertazione di Riccardo Frizza l’aver illuminato sfumature e chiaroscuri dell’affresco donizettiano in ogni piega. Già si conosceva questo direttore d’orchestra come bacchetta di grande affidabilità. Ma occorre rimarcare che la sua solida conoscenza della materia, e soprattutto la capacità di condurre agli approdi desiderati l’orchestra, il coro (accuratamente preparato da Roberto Gabbiani) e la compagnia di canto hanno guadagnato all’esecuzione esiti di alta qualità. Un percorso interpretativo, questo di Frizza, che motiva a pieno la scelta dell’edizione integrale.
Ovviamente la riuscita dello spettacolo si deve anche al cast vocale. Qui giganteggiano Maria Agresta, Anna Bolena, e soprattutto Carmela Remigio, Giovanna Seymour. Decisamente positiva la prova dell’Agresta, al suo debutto in questo ruolo che è spiccatamente drammatico; ruolo nel quale ella dispiega la rotondità del suo registro centrale, ma anche il piglio e l’agilità necessari ai passi virtuosistici e agli acuti, nei quali tuttavia non manca qualche défaillance. Lodevole la tenuta interpretativa, anche se la fatica un po’ si fa sentire nella grande aria del delirio, alla fine. Sorprendente l’infallibilità della Remigio, qui nei panni di Giovanna (in altra edizione è stata anche Anna), alla quale conferisce voce, attorialità, efficacia espressiva che marcano la sua forte presenza. Impressionante è poi il lungo duetto del secondo atto, tra Anna e Giovanna: un episodio di teatro musicale nel quale l’immedesimazione delle due artiste nei rispettivi ruoli consente loro di toccare una climax memorabile di febbre drammatica, in un’impeccabile tornitura di canto.
Alex Esposito dà al suo Enrico VIII tutta la protervia, l’arroganza, la meschinità dovute, e fa sentire adeguatamente il contributo del personaggio, che pure non ha una sua aria, ai momenti d’insieme che scandiscono il precipitare degli eventi. Il tenore René Barbera è Riccardo Percy, titolare di una parte impervia che lo espone a puntate vertiginose; bisogna dargli atto che risolve onestamente il temibile ruolo, con una sensibilità di fraseggio che compensa degnamente la poca attendibilità teatrale. Bravo il mezzosoprano Martina Belli come paggio Smeton, al quale procura il dovuto rilievo sia nei momenti solistici sia in quelli d’assieme. Al generale apprezzamento vanno associati, nelle parti di contorno, Nicola Pamio e Andrii Ganchuk (dal progetto “Fabbrica” del Teatro dell’Opera), che si disimpegnano con merito, rispettivamente come Hervey e come Rochefort.
Il progetto visivo reca la firma di Andrea De Rosa per la regia, e di Luigi Ferrigno per le scene, da un’idea di Sergio Tramonti. Ursula Patzak ha disegnato i sontuosi ed eleganti costumi, Enrico Bagnoli le luci. Andrea De Rosa colloca il movimento in un ambiente semitenebroso, come impone la vicenda, scandito da strutture semplici e razionali. Al centro della scena incombe una specie di torre, che via via si trasforma, e nella quale, e intorno alla quale, si avvicendano i vari episodi. Non è un granché come idea, e tuttavia funziona, anche se la rete elettrosaldata da giardino che imprigiona Anna nel suo letto è veramente brutta. E da lì in poi l’azione è circoscritta intorno e dentro una torre multifunzione. Però non si giustifica qualche buh che alla fine, in un caloroso tributo di applausi agli interpreti musicali, accoglie i creatori della parte visiva.