Visto al Teatro Argentina di Roma
Enrico IV versus Pirandello
Al suo terzo appuntamento con un classico pirandelliano, dopo “L’uomo, la bestia e la virtù” e i “Sei personaggi”, Carlo Cecchi firma una regia dell’“Enrico IV” sotto molti aspetti rivoluzionaria. In bilico tra omaggio e critica all’autore agrigentino, l’esperimento propone un’interpretazione che farà parlare di sé nella storia del dramma
Enrico IV di Pirandello è un titolo storicamente legato al Teatro Argentina di Roma. Dopo il clamoroso debutto della pièce al Teatro Manzoni di Milano il 24 febbraio 1922 con Ruggiero Ruggieri nelle vesti del protagonista, il dramma arriva all’Argentina, il 18 ottobre di quell’anno, con la regia di Pirandello in persona e Umberto Palmarini nei panni del re folle. La sala romana fu scelta ancora, l’11 giugno 1925, per il debutto della compagnia, selezionata appositamente da Pirandello e capitanata dal grande Lamberto Picasso, che di lì a breve avrebbe portato in scena il dramma nella sua prima – trionfale – tournée in Europa. A queste prime “storiche” hanno poi fatto seguito, negli anni, le interpretazioni di grandi nomi del teatro come Romolo Valli e Giorgio Albertazzi che anche in questa sala hanno contribuito a dare un volto inconfondibile all’eroe pirandelliano. A raccogliere l’eredità di questa lunga e gloriosa tradizione di interpretazioni ci pensa ora Carlo Cecchi, che debutta in questo testo nella doppia veste di regista e protagonista, proseguendo l’approfondimento sul drammaturgo siciliano culminato nel 2001 con Sei personaggi. Accanto a lui un cast di ottimi interpreti, fra cui spiccano soprattutto il dottore Gigio Morra e la marchesa Angelica Ippolito.
Adattamento e ripresa del testo non semplici, la regia di Cecchi si distingue per i tratti fortemente innovativi con cui rilegge l’opera pirandelliana. Per usare le parole dello stesso regista, in questo spettacolo «si recita con Pirandello e anche contro Pirandello». Si recita “con” perché il regista prende alla lettera la famosa formula del “teatro nel teatro”, la estende oltre i limiti stabiliti dallo stesso autore e la porta alle sue estreme conseguenze. Non solo, infatti, come avviene nel testo, il coro dei personaggi porta in scena una pantomima storica per far guarire Enrico IV e costui recita la parte del pazzo per prendersi gioco di loro, ma tutti insieme i personaggi dichiarano esplicitamente che stanno mettendo in scena il dramma di Pirandello, facendo quindi di tutta la vicenda una finzione della finzione. Nella scena iniziale, in cui i servitori del re istruiscono l’appena arrivato attore debuttante sulla pronunciare delle battute assegnategli da Pirandello, si segnala subito allo spettatore che ciò a cui assisterà è una recita di terzo grado, in cui gli attori impersonano sé stessi nell’atto di recitare come attori del teatrino allestito per Enrico. La sovrapposizione dei meta-discorsi diviene quindi vertiginosa e innesca il secondo procedimento al cuore di questo allestimento dell’Enrico IV, quello del recitare “contro” Pirandello. Se niente di ciò che è rappresentato sul palco è vero, ma denuncia platealmente di essere la recita di una recita di una recita, allora è possibile intervenire sul testo e rivederlo criticamente. In una clamorosa infrazione del testo, Carlo Cecchi/Enrico IV si ribella al ruolo per lui disegnato da Pirandello e riscrive da par suo la sua storia. Frantumando il copione in una serie di meta-riflessioni a titolo personale, il protagonista afferma senza mezzi termini che la follia pensata dall’autore come frutto di una caduta da cavallo è un escamotage deterministico ridicolo e che la fine dell’opera appare come un trito dramma naturalistico ottocentesco. L’omaggio all’autore e al suo meta-teatro si rovescia quindi in critica aperta alla sua creazione, e l’apice dello scontro si raggiunge quando alle battute viene interpolata la lettura di un altro testo pirandelliano (una lettera a Ruggiero Ruggieri a proposito della pièce), che viene platealmente irrisa dal protagonista. Nella deliberata innovazione di Cecchi/Enrico IV, quindi, il protagonista riscrive la sua storia in maniera a suo modo più convincente: il personaggio non è mai diventato folle in seguito a una cavalcata funesta, ma ha solo deciso di abbracciare in quell’occasione la sua naturale “vocazione teatrale”.
Non solo il meccanismo del meta-teatro impazzito, ma anche altre novità ragguardevoli sono da segnalare nella messinscena di Cecchi. Il recitare contro Pirandello, ad esempio, fa sì che al tipo di recitazione dettagliata nei minimi particolari richiesta dall’autore siciliano (celebri le didascalie che affollano in gran numero i suoi testi drammaturgici) si sostituisca un tipo di teatro che molto concede all’improvvisazione. I monologhi dell’eroe eponimo, oltre che tagliati e rimontati, sono caratterizzati anche da molte aggiunte evidentemente estemporanee, che in qualche caso hanno causato qualche sbavatura nella dizione del pur magnifico Cecchi. Un’altra importante innovazione di questo allestimento dell’Enrico IV ha riguardato anche la lingua dello spettacolo. Dopo averla bollata senza appello come “atroce”, il regista ha in diversi punti riscritto il copione originario, sostituendo termini più colloquiali ad altri più letterari (fiction al posto di finzione, per fare solo un esempio) e aggiungendo inflessioni dialettali al parlato dei personaggi (soprattutto il medico e il Barone) per rendere più colloquiale la sintassi libresca. Anche l’operazione di riscrittura, però, non ha mancato di sfociare in un gusto dissacratorio nei confronti del testo originario, come denota la spregiudicata aggiunta di espressioni di turpiloquio che suona come uno sberleffo alla lingua pirandelliana sempre sorvegliata e mai volgare. Interessanti sono stati anche gli inserti musicali voluti dal regista, in molti casi tratti dal repertorio operistico ottocentesco, che appaiono non una semplice ornamentazione ma un ulteriore implicito commento del dramma. Ad esempio, le note dell’ampolloso “prologo in cielo” dal Mefistofele di Arrigo Boito che accompagnano l’entrata in scena di Enrico si pongono in voluto contrasto con la divertita farsa clownesca che sta per cominciare. Ugualmente, gli accordi della tragica conclusione di Cavalleria rusticana di Mascagni che siglano la scena finale con l’omicidio di Enrico, servono a enfatizzare fino all’eccesso – per parodiarlo meglio – quel finale da “confuso e melenso melodramma” tanto stigmatizzato dal suo protagonista. Menzione doverosa, infine, per gli splendidi costumi di Nanà Cecchi, che ha ricreato in maniera ancora una volta magistrale l’ambientazione della vicenda.
Il recitare contro Pirandello di Carlo Cecchi si trasforma in un’operazione che inevitabilmente tradisce gli intenti originari della pièce. La “tragedia in tre atti”, come la definisce esplicitamente l’autore, si trasforma in una commedia farsesca e meta-teatrale. Il senso di drammatica solitudine che circonda l’eroe si stempera nel divertito gioco di questo gruppo di attori. La fine perturbante pensata per spiazzare lo spettatore lascia lo spazio a un finale dal riso consolatorio. Un’operazione sicuramente coraggiosa, che si candida a entrare nella storia delle interpretazioni all’Argentina – e del testo in generale.