Flavio Fusi
Cronache infedeli

La Russia di Yulia

«Quando un regime comincia a declinare, si rivolge alla violenza, perché la violenza rimane l’unico strumento per garantire il potere. E la violenza segnala che la fine è vicina»: la verità di Yulia Latynina, la giornalista che svela le bugie di Putin

«I nostri dirigenti, i nostri capi, temono la trasparenza e la critica aperta come il vampiro teme la luce. Insomma: è normale che il vampiro tema la luce, meno normale è che la gente, la gente comune, sia costretta a vivere nel buio». Pochi anni fa a Peredelkino, vicino Mosca, in un tiepido pomeriggio d’aprile. Yulia Latynina è ospite nella dacia di un amico scrittore. Parliamo, in giardino, davanti a una tazza di thè. Lei dice: «Se noi giornalisti ci lasciamo intimidire, possiamo anche cambiare mestiere».

Non ha cambiato mestiere, Yulia, ma nel settembre del ‘17 ha lasciato in fretta e furia Mosca e la Russia. Un giorno qualunque ha riunito la famiglia, ha fatto i bagagli, ha pianto ed è volata verso una meta sconosciuta. La pressione era diventata troppo forte, il pericolo ormai imminente. Minacce da sempre, telefonate, tentativi di intimidazione. Poi, nella notte del 18 luglio, l’attacco diretto: tutta la famiglia intossicata con il gas nell’appartamento di Mosca. Era solo l’inizio: due mesi dopo, l’auto data alle fiamme davanti casa. Yulia protesta, ma non si aspetta protezione. La polizia minimizza, le indagini sono svogliate e superficiali. Infine la sentenza degli investigatori: solo un caso di autocombustione.

Dunque, bisognava andare. Un altro posto, non un’altra vita. La giornalista coraggiosa, la scrittrice che ha definito la guerra nel Caucaso “il nostro Vietnam” e che si rivolge a Putin come all’ayatollah russo, continua a scrivere sulla Novaya Gazeta, il giornale che fu di Anna Politkovskaya, interviene sulla rivista Moscow Times, parla ancora dalla redazione della radio Eco di Mosca, una delle poche voci libere nella Russia del grande gelo.

Mosca nel cuore. Rivedo Yulia, una donna minuta, occhi grigi e una grande massa di capelli rossi, percorrere a passo svelto gli spogli corridoi della radio, entrare nello studio, accomodarsi le cuffie, sorridere ai tecnici oltre il vetro, difendere con passione i suoi argomenti.

Ormai, nemmeno la redazione dell’Eco di Mosca è più sicura. Un mese dopo la partenza di Yulia, un uomo ha fatto irruzione armato di coltello e ha ferito gravemente un’altra giornalista, Tatyana Felgenhauer. Per la polizia, si è trattato di un deprecabile episodio di criminalità comune; per il direttore dell’emittente, Aleksei Venediktov, di un «sanguinoso attacco alla libertà di stampa». Pochi giorni prima, la stessa giornalista aggredita era stata citata dalla televisione di Stato in un servizio che accusava la stazione radio di diffondere nella società russa posizioni filo-occidentali.

Ecco il punto: il secolare contrasto della storia russa tra Occidentalisti e Slavofili, che risale all’era di Pietro il Grande, ha plasmato agli albori del terzo millennio un pauroso ircocervo: un dottor Jekyll slavofilo nel potere politico e ultra-occidentalista nell’economia e nei consumi. La Russia di oggi non somiglia in nulla a quel grande Paese inquieto e dolente che trenta anni fa Gorbaciòv tentò di portare dentro la famiglia europea, immaginando l’avvento di un ordine internazionale non più fondato sullo scontro di blocchi contrapposti. Fu questa la grande scommessa perduta della perestroika. Ma la campana suona per tutti. Con Gorbaciòv, va ricordato, fallirono allora anche i leader occidentali: per ipocrisia, per miopia politica, per convenienza nazionalistica. La Russia di oggi, il suo sogno imperiale, è frutto di quell’insuccesso epocale: il fallimento del sogno europeo. La crisi dell’Euro-zona e la Brexit hanno fatto il resto, minando l’appeal europeo per i russi acculturati delle metropoli. Questo è l’approdo ultimo, lo stigma di Putin, che su Le Monde Diplomatique la giornalista Helene Richard chiama la «Solitudine della Russia».

Teorie, materiale per storici. Come tutti i giornalisti, Yulia Latynina è più legata alla cronaca quotidiana, ai fatti, alla riflessione sul potere qui e ora. Nel nostro lontano incontro ricordava con un sorriso gli epiteti rivolti da Putin agli intellettuali non conformisti: «Parassiti, pidocchi dell’informazione». Lo Zar, al colmo del suo successo, poteva irridere con disprezzo alle flebili voci di dissenso.

Oggi, in una conversazione con il New York Times, la giornalista russa aggiorna il suo giudizio. «Per quasi sedici anni, il regime di Putin si è basato sulle menzogne diffuse dalla televisione di Stato e sulla prosperità garantita dalle risorse di petrolio e gas. Ora la prosperità è svanita e l’audience televisiva è drasticamente ridotta. Il conflitto in Ucraina ha perso i suoi effetti patriottici, e la campagna di Siria non è un sostituto altrettanto efficace. Quello che resta è la violenza. Quando un regime comincia a declinare, si rivolge alla violenza, perché la violenza rimane l’unico strumento per garantire il potere. La violenza di oggi è un sintomo, segnala che la fine è vicina».

È un messaggio in bottiglia, quello che Yulia affida alla distanza abissale che la separa da Mosca: sono al sicuro e continuo a lavorare. E tornerò, sono certa che tornerò.

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