Alla Galleria d’arte moderna di Roma
Arte Donna
Angelica, desiderata, conquista, sedotta, ridotta a oggetto: è la parabola della donna nell'arte raccontata da una bella mostra che dimostra come l'iconografia del corpo femminile sia stata sempre e solo appannaggio degli uomini
Corpi. E immagini di corpi, impresse sulla tela o sbalzate a tre dimensioni nella pietra e nel bronzo. Nudi per lo più. Sulle quasi cento opere esposte più della metà sono composizioni di corpi femminili ritratti senza veli. Ed esplorati o messi in posa da sguardi quasi esclusivamente maschili. Una dittatura che perdura da secoli nel mondo dell’arte e che neppure la modernità è riuscita completamente a ribaltare. Alimentando fantasie, profezie e mitologie a senso unico che gli scrigni ufficiali dell’arte hanno eternato nelle loro collezioni. Tanto da accreditare l’ironico dubbio messo in circolo negli anni sessanta dal femminismo made in Usa: solo nude le donne possono entrare nei musei?
Corpi e visioni di corpi dunque, ripescati da un immaginario, quello maschile, fazioso e distorto, ma in parte riscattati dall’ambiguità e dalla profondità che sono doni peculiari di ogni vero artista, la cui vocazione sociale è rendere visibile l’invisibile e dunque cogliere nella realtà solo apparentemente ferma che gli scorre davanti differenze, tendenze, conflitti, segni d’evoluzione e tracce di mutamento.
Sono i materiali, tutti estratti dal ricco campionario di opere della sua raccolta, e integrati da documentazione visiva dell’Istituto Luce e della cineteca di Bologna, con cui la Galleria d’arte moderna di Roma in via Crispi, affidandosi a quattro curatrici – Arianna Angelelli, Federica Pirani, Gloria Raimondi e Daniela Vasta – ha costruito la mostra Donne, appena inaugurata e in cartellone fino ad ottobre. Un viaggio attraverso il lento e oscillante processo dell’emancipazione femminile tra la fine dell’Ottocento e l’intero arco del Novecento, reso in qualche modo più avvincente da un inesorabile accavallarsi di punti di vista contrapposti. A tirare i fili del racconto è una narrazione tutta al femminile, ma le tessere di questo copione a mosaico sono frutto di una visione essenzialmente al maschile, che domina, come nella maggioranza dei musei d’arte anche il repertorio di questo padiglione comunale.
La sensazione per il visitatore è di rimbalzare in questa alternanza di punti vista contrapposti e di muoversi dentro una sorta di prigione, quella subalterna della condizione femminile, che a poco a poco vede sfaldarsi, ma continua a restare in piedi subdola e opprimente.
Più facile liberarsi dell’immagine di donna angelicata, custode dei misteri della procreazione e dell’amore, della bellezza e della purezza, uno stereotipo oggi in disarmo che l’Italia da poco unita sotto il regno sabaudo ma ancora in forte ritardo rispetto ad altri paesi europei si trascina appresso nella sua rincorsa alla modernità. Formalmente impeccabile ma ormai remota e priva di vibrazioni l’allegoria «Le Vergine savie e le vergini stolte» (nella foto accanto) confezionata da Giulio Aristide Sartori, uno degli artisti più accreditati dell’epoca, chiamato persino ad affrescare il Parlamento, confeziona come una pala d’altare: al centro un esoterico rito di purificazione, a sinistra un gruppo di donne imbalsamate in una posa da sacerdotesse, a destra altre fanciulle il cui unico segno di stoltezza è affidato alla maliziosa leggerezza che fa ondeggiare i loro corpi e accende di vitalità i loro occhi.
Dall’altrove mistico all’altrove del piacere e della carne. È il salto che, come documenta con grande efficacia nella prima delle sue sale questa mostra, molti pittori inizio Novecento devono compiere per rappresentare la bellezza femminile nella sua nuda traduzione di donna oggetto. Il massimo della sensualità? La sfrenata ostentazione del proprio corpo della Sultana di Camillo Innocenti. Oppure quelle ancelle nude che agitano anche e seni perfetti in quel Frigidarium pseudoantico romano di Alessandro Pigna. Per raggiungere e incoronare senza freni o pudori l’oggetto del desiderio la società perbenista deve emigrare, prendere in prestito altre culture e altri spazi. L’oriente o il passato pagano non importa. Certo poi resta il piacere mercenario e il maschilismo ottuso che regola la vita dei bordelli e del sesso rapace. Ce ne suggerisce lo squallore uno dei quadri più belli di questa mostra, «Susanna» di Felice Casorati, datato 1929 (nella foto sotto). La storia è quella biblica di Susanna e i vecchioni: due anziani giudici sporcaccioni spiano mentre si fa il bagno in giardino una bella e timorata fanciulla, rivolgendole profferte e ricatti perché si conceda loro. Solo l’intervento del profeta Daniele riesce a smascherarli e a salvare dalla condanna a morte l’innocente ragazza.
Con un colpo d’ala da grande maestro, Casorati trapianta la scena in un interno qualunque. Due soli personaggi in evidenza. La donna nuda in primo piano. E al suo fianco un uomo seduto in giacca e cravatta, un’espressione distaccata e quasi ebete sul volto. Probabilmente è la stanza di una casa di tolleranza, dove il desiderio sì è appena consumato in una marchetta: la donna torna ad essere un oggetto spento, l’uomo un guardone appagato e senza più parte in commedia. Forse – ad abitare il quadro con qualche arbitrio interpretativo – è solo un interno proletario o piccolo borghese, un dialogo muto tra moglie e marito.
Non cambierebbe poi molto nello spirito dell’epoca: la donna riconsegnata dalla retorica fascista ad un ruolo di oggetto neutro e senza appeal, custode del casolare e della famiglia, perdendo quella spinta di autonomia che la grande guerra le aveva offerto, tutti i maschi offerti al massacro in trincea, mogli, fidanzate, sorelle, chiamate a sostituirli nei posti di lavoro. Un passo indietro vistoso che l’arte più vicina al regime sancisce celebrando come virtù prevalente della donna quella materna: a raccontarcelo in mostra una serie di tele, di bassa qualità e autori minori: ritratti sdolcinati di madri che stringono al seno come Madonne il proprio bambino, in sintonia perfetta con la campagna del regime per dare più figli alla patria e all’Impero. Come contrappunto le curatrici hanno aggiunto a questa passerella le note stridenti di due opere più recenti che giocano beffarde sul tema del parto: la pancia rigonfia come un uovo sbalzata da Pino Pascali e un cesto di paglia colorata con due ali sfalsate realizzata per la Galleria da Sissi.
Certo, nelle classi più abbienti e acculturate circolano altre visioni, altri modelli più complessi di donna, non più riconducibili a quella missione da chioccia. La psicoanalisi ha minato dalle fondamenta il guscio protettivo della famiglia, la letteratura del decadentismo ha aggiunto all’immagine della donna nuovi aloni di autodeterminazione sovraccarichi di mistero, seduzione, peccato e minaccia.
E poi c’è il cinema a scompigliare le carte, portando alla ribalta figure femminili di dive fatali del muto. Tra i siparietti più stuzzicanti di questa mostra ci son gli spezzoni filmati che rendono omaggio a due attrici allora in gran voga come Francesca Bertini e Lyda Borelli. A far da specchio fedele dalle trasformazioni di ruolo e identità innescato da queste e altre icone una serie di ritratti, nei quali alle donna viene riconsegnato identità e spessore. Tra le opere più belle un piccolo quadro che Giacomo Balla dedica a sua moglie (nella foto accanto al titolo) sfruttando un taglio fotografico di luci che aggiungono al volto straordinarie risonanze di dolcezza e profondità.
Ma a imprimere una grande svolta è di nuovo la guerra, il secondo conflitto mondiale che segna la fine del nazifascismo. E il ruolo svolto dalle donne nella lotta partigiana. Da lì inevitabile, a pace fatta, il riconoscimento del diritto di voto. Conquista cui seguiranno quelle strappate dal movimento femminista, documentate da manifesti foto e filmati degli anni successivi che chiudono questo tragitto. Una ricognizione che sarà completata tra qualche mese con una galleria di antiche foto di famiglia che il museo di via Crispi ha invitato i romani a inviare.
Un’altra picconata a quella prigione che avvilisce la condizione femminile e non è ancora crollata. Muro davvero difficile da demolire, come quell’insieme di tasselli da puzzle, esposto in una delle sale di via Crispi, contro il quale Giosetta Fioroni (nella foto sopra), grande maestra creativa dell’arte contemporanea, si mette in posa e si nasconde: il volto camuffato da sbaffi da clown, il corpo attraversato da riquadri che ripetono i riquadri di mattoncini dello sfondo.