Al Museo etrusco di Villa Giulia di Roma
Lo Schifano etrusco
Una piccola mostra recupera due cicli di pitture (del 1991 e del 1995) di Mario Schifano, dedicati al suo rapporto con la classicità. Quasi un omaggio al suo passato di "impiegato" del celebre museo etrusco
A venti anni dalla morte, una mostra torna a celebrare il talento di Mario Schifano (1934-1998), il più geniale e poliedrico interprete dell’arte pop all’italiana. E aggiunge un capitolo quasi inedito alla sua biografia, quel decennio di gestazione della sua vocazione creativa, consumato tra le austere pareti affrescate e i preziosi cimeli etruschi di villa Giulia, nelle vesti dimesse e fin troppo strette per lui di un impiegato qualunque.
In quel museo, che ora gli rende omaggio nel piccolo palcoscenico ricavato in due sale del piano nobile, Schifano entrò nel 1952. Aveva appena 17 anni. Un ragazzino senza arte né parte, rientrato dieci anni prima dalla Libia insieme alla madre e ai fratelli per sfuggire dalla guerra, e costretto ad arrangiarsi in ogni modo per sostenere la famiglia in difficoltà. Il suo impiego precedente era quello di cascherino in una pizzeria di Trastevere, dove ha lasciato – ma forse è una delle tante leggende che circolano su di lui – il ricordo di una beffa consumata con una pizza infarcita con schegge di hashish. Lavorare a Villa Giulia fu sicuramente un salto sociale non disprezzabile. A fargli avere il posto era stata la raccomandazione del padre, un apprezzato restauratore impiegato nell’area archeologica di Leptis Magna, che era stato assorbito nei ranghi del museo dopo il rientro a Roma, seguito alla liberazione da parte degli inglesi che lo avevano rinchiuso in un campo di prigionia in Africa. Tra i compiti che vengono assegnati a Mario ci sono i rilievi da effettuare sui monumenti da restaurare e la trascrizione su pianta delle planimetrie delle tombe delle necropoli etrusche: mansioni che sfruttavano e facevano maturare il suo talento per il disegno ma non gratificavano certo la sua creatività. All’inizio, Schifano si adatta e strappa ai suoi superiori lusinghiera pagelle: giudizi che la mostra registra esponendo in bacheca qualche documento campione. Ma col tempo diventa sempre più insofferente, soprattutto alla disciplina, nonostante l’assunzione in pianta stabile avvenuta nel 1958: ritardi, richieste di congedi e permessi straordinari. Anche questi documentati dalle note di servizio. Insomma non ne può più. Lui stesso confessa la noia, « un tedio incredibile» per quel lavoro così ripetitivo.
Ormai si è lanciato nell’avventura dell’arte. Ha bisogno di tempo per dipingere, frequentare gli altri artisti, da Tano Festa a Franco Angeli a Francesco Lo Savio con cui fa gruppo e salotto ai tavolini di piazza del Popolo. Tempo per fare mostre e promuovere la sua attività che imbocca anche altre strade: la fotografia, il cinema, la musica pop. Nel 1962 si dimette con una lettera ufficiale. Come altri artisti della sua generazione Mario Schifano è spinto da una fretta vorace, e trova nella fretta l’unico modo di star dietro a un mondo, l’Italia del boom, che corre più in fretta di lui. Brucia i tempi anche a costo di bruciare la sua stessa vita: una corsa all’autodistruzione che si conclude nel ’98 con l ’infarto che stronca la sua esistenza.
Ma, allora che, cosa ne resta e in che modo riaffiorano quei dieci anni spesi a Villa Giulia, così ostentatamente rinnegati, in apparenza così estranei all’anarchica spinta creativa di un artista, all’ansia di bruciare le tappe che incalza Schifano? È la domanda da cui è partito e attorno alla quale un archeologo estraneo al mondo dell’arte, Gianluca Tagliamonte, ha costruito questa mostra, in collaborazione con il nuovo direttore del museo, Valentino Nizzo, che l’ha accolta, e Maria Paola Guidobaldi che l’ha supportata con una mirata ricerca d’archivio.
La risposta è sostenuta da due intuizioni sopraggiunte in corso d’opera. La prima è che nel panorama che segna il travaso verso la contemporaneità, nessun artista italiano è riuscito a sottrarsi al bagaglio culturale, alla lezione e al fascino dell’antico, come prova del resto proprio il percorso di Schifano e dei suoi compagni d’avventura pop, sorretto certo da una forte attenzione per le esperienze pilota d’Oltreoceano, ma innervato da un’inconfondibile eredità genetica per il patrimonio iconografico dell’arte classica.
La seconda è che la sensibilità adolescenziale che guida la creatività di Schifano e persino il suo orientamento postmoderno a riorganizzare a palinsesto sul modello vincente della televisione la propria visione della realtà non poteva che far riemergere le suggestioni e i debiti formali di quel contatto ravvicinato con l’arte romana e preromana maturato negli anni di formazione.
Non a caso, il percorso a tappe di questa rivisitazione si apre con la citazione fotografica di uno dei quadri più noti di Schifano, Leptis Magna, io sono nato qui, che è già nel titolo una orgogliosa rivendicazione di identità oltre che una pagina del suo diario d’infanzia, l’evocazione di quelle sue scorribande a fianco del padre restauratore tra le maestosa rovine della città in terra di Libia che diede i natali alla dinastia imperiale dei Severi. La stessa memoria di bambino che dà forma ai deserti e alle palme, icone che rispuntano continuamente a costellare la sua produzione.
A una ricostruzione fotografica è affidata anche la mappatura di un altro evento che restituisce in forma di epopea i legami di Schifano con la pittura etrusca. Una straordinaria performance dal vivo, datata 1985, in una piazza di Firenze, immortalata da una cronaca in diretta di Achille Bonito Oliva. La sfida è dedicata a uno dei più celebri capolavori dell’arte etrusca: la chimera di Arezzo. Nell’arco in poche ore il pubblico, all’inizio spazientito e perplesso poi sempre più conquistato dall’impresa, vede materializzarsi su uno schermo di 10 metri per quattro, di dieci tele accostate, una visione trascinante. Uno sfondo di colline investito da una valanga di colori che deborda verso il cielo, dove scorrono come una cavalcata di fantasmi, le sagome di uno sciame di chimere volanti. Il mistero di un’apparizione e di una figura arcaica che ancora ci parla declinato da un tumulto di segni e pennellate veloci: una vertigine di senso e di sensi che rimodella in divenire anche la Storia più remota.
È la stessa cifra che anima la passerella delle altre opere in mostra. Dal vivo stavolta. A rendere più pregnante il messaggio di questo ritorno al passato. Due cicli, che esaltano la maestria di Schifano.
Il primo è un campionario di 24 immagini, datate 1991, realizzate su commissione su carte intelata di medio formato, ed esposte l’anno successivo in una mostra di grande successo a Tarquinia. Riproducono gli affreschi di tombe etrusche, soprattutto della Necropoli di Tarquinia, sulle quali sicuramente Schifano negli anni passati in soprintendenza ha effettuato rilevazioni. E vasi sui quali si è altrettanto sicuramente esercitato come disegnatore. Alcune sono registrazioni abbastanza fedeli degli originali. Le altre sono libere e visionarie rivisitazioni. La figure galleggiano su tappeti di colori brillanti che ne avvolgono i profili, come tracce di un tempo ridestato al presente. Emozioni riaccese da nuove pulsioni. La storia riletta come flusso di un eterno divenire, quasi che il pittore seguisse alla lettera istruzioni per l’uso di un profeta presocratico del movimento come Eraclito.
Il secondo repertorio di immagini , documentato da tre tele e vari disegni preparatori, appartiene invece, a mantenere questo paragone filosofico, all’universo statico e idealizzato di Parmenide. Vengono da un secondo ciclo più tardo, commissionato nel 1995 e completato nel 1996, per conto di una fondazione religiosa che compie attività di assistenza per l’infanzia africana. È dedicato alle statue di matres matutae conservate nel museo di Capua dove il pittore ha lavorato dopo aver soggiornato in una missione africana. Quei capolavori di pietra del museo, monumenti davvero unici al mistero sacro della maternità e della fecondità, uno dei quali esposto qui in mostra, sono trattati con una deferenza e un rispetto anomali al confronto con altri quadri del pittore. I colori restano brillanti, anche se dominano le tonalità acquose. La stesura resta veloce. Cambia invece l’impianto della scena, le figure di quelle madri sono incastonate in nicchie sospese nel dipinto e in posizione frontale come gli originali. Si avverte una immedesimazione molto intensa e commossa nel tema, quasi una confessione personale. Il ritorno al mondo arcaico di Schifano diventa così un ritorno verso se stesso e la profondità ancestrale della vita umana. Una tregua al riparo dall’ossessione della fretta che confina con la morte. Un piano inclinato lungo il quale Schifano sta per precipitare.
Insomma una mostra da non perdere. Peccato solo che la scena sui cui resterà fino a febbraio sia troppo angusta, soffocata in due stanze impreziosite da soffitti affrescati e cimeli ma ridotte a corridoi. Un difetto che il nuovo direttore di Villa Giulia, molto aperto al dialogo con l’arte contemporanea, conta di rimediare entro pochi mesi con le nuove sale d’esposizione ormai a fine restauro nella vicina villa Poniatovsky.