Paolo Petroni
Due appuntamenti con il teatro internazionale

Il teatro è nudo?

Due coppie a letto: il nudo, il voyerismo e la mediazione cinematografica. Due registi di grande fama internazionale, Katie Mitchell e Milo Rau, partono dallo stesso presupposto: il teatro non basta a se stesso

Due spettacoli che arrivano a Roma assieme, scuramente una coincidenza, ma che non può non far riflettere visto che tutti e due pongono il problema dell’uso dei nudi e delle riprese cinematografiche in scena: il primo è La maladie de la mort, come il racconto di Marguerite Duras da cui è liberamente tratto da Katie Mitchell (visto all’Argentina, proveniente da Torino e poi ospitato a Bologna e a Prato), il secondo The repetition – histoire(s) du Théatre (1) di Milo Rau (visto al Vascello nel programma del festival RomaEuropa).

Sbagliato il lavoro della Mitchell, che poco o nulla ha della Duras, cupa, fredda messinscena del rapporto di coppia, una donna che si vende con tutta la meccanicità che questo comporta e un uomo che è morto dentro, incapace del tutto di amare, e spera da questo incontro, ripetuto di notte in notte, di ottenere una impossibile scintilla di sentimento, di vita. Il tutto commentato da una voce narrante, che fa osservazioni o riferisce pensieri in un linguaggio intenso e molto letterario ed è di Jasmine Trinca, presente in scena in una sorta di cabina di regia, visto che tutto è costruito come un set per la ripresa di un film, in linea con la ricerca sul sovrapporsi e incrociarsi dei linguaggi di scena e tecnologici della Mitchell. Laetitia Dosch e Nick Fletcher sono i due protagonisti che, all’inizio di ogni incontro nella camera d’albergo di lui in una cittadina di mare, si spogliano e recitano nudi, mentre le loro immagini una troupe cinematografica manda in diretta con un pessimo sonoro su un grande schermo che sovrasta il palcoscenico, dove è allestita la stanza e il corridoio antistante, mentre di lato è la cabina della Trinca.

Lui è un voyeur e lui soffre della propria situazione, vorrebbe lavar via tutto con pulizie di lei e proprie; patisce sino, una volta, a piangere e lamentarsi sonoramente accoccolato nella doccia, nel sentirsi prigioniero di tanta impotenza a vivere, che gli suscita solo pulsioni violente non sempre trattenute. E qui il voyurismo è all’ennesima potenza, in lui che guarda lei, in lui che guarda al Pc video porno, in lui che filma lei col telefonino, e il tutto sempre ripreso dalla telecamera che costruisce e restituisce la vicenda sul grande schermo. Al fondo, volendo, forse si potrebbe leggere qualcosa che si lega ai rapporti tutti virtuali e distanti cui ci ha abituato il mondo delle immagini nel Web oggi, ma pare comunque una forzatura. La luce è sempre poca, il dialogo sussurrato, e non si avverte mai davvero un’emozione, una scintilla di vitalità o semplice sessualità, così che lo spettacolo, pur durando poco più di un’ora, ha un suo andamento anche monotono, noioso, che volendo è poi ciò che connota il rapporto della coppia.

I due attori quasi sempre nudi della Mitchell hanno, volendo, una loro ragione nella sostanza stessa delle situazioni, Due nudi, un’altra coppia, ci sono anche nello spettacolo di Milo Rau, mostrati a letto che parlano e si lamentano del figlio, che pur essendo il compleanno della madre, non si è fatto vivo tutto il giorno (loro non sanno ancora che è stato ucciso). Qui la loro nudità non ha davvero alcuna ragione, a meno di forzarne la lettura verso il cercare di sottolinearne l’essere inermi, più fragili, visto che potevano benissimo fare lo stesso discorso seduti a un tavolino bevendo un the, o su un divano davanti alla tv. Anche in questo caso c’è un grande schermo al fondo del palcoscenico su cui vengono proiettate le riprese fatte in diretta degli attori in scena, mescolate, montate in alcuni casi con altre preregistrate. Abbiamo ormai naturalmente visto più volte l’uso di filmati a teatro, da quelli usati come sfondo, come scenografia, a quelli che servono a ingrandire primi piani in momenti particolari, ma quando le riprese sono continue e praticamente lo spettacolo viene tradotto in un film dal vivo l’impressione è che sotto sotto vi sia una poca fiducia nella possibilità e nell’essenza stessa del teatro.

Rau, che tra l’altro sottotitola questo lavoro “storia/e del teatro” forse perché presenta a partire da una scena vuota tutta la storia della messinscena, a cominciare dai provini degli attori, parla cripticamente di «messa in discussione della forma teatrale, da sempre esperienza ritualizzata dei peccati originali e dei traumi collettivi, nel rappresentare la violenza e gli eventi traumatici, radici delle origini e del potere del teatro stesso, dando vita a un manifesto del Teatro Democratico del Reale». Più comprensibile e consona allo spettacolo l’intenzione di una rivisitazione di fatti violenti, di un’uccisione occasionale e gratuita di un giovane gay arabo, Ihsane Jarfi, da parte di un piccolo branco di ragazzi più o meno ubriachi, indagandoli per riflettere su una notizia di cronaca e cercar di andare oltre l’idea della banalità del male, opponendosi a un sostanziale istinto di morte. Per far questo racconta il contesto e le conseguenza, mette a fuco le emozioni, i sentimenti che in realtà entrano in gioco, specie tra coloro (i genitori, il compagno) che erano legati alla vittima.

L’uso del cinema(nelle foto qui e accanto al titolo), che non è una novità in Rau, forse vuole allora aiutare a prendere una distanza dalla difficoltà di rappresentare la violenza in scena, cercar di rendere straniante il verismo del pestaggio, ma per questo basta già il teatro nel teatro, basta, per fare uno degli esempi, l’aiutare a rialzarsi la vittima da terra a fine scena, chiedendogli se ha preso freddo, da parte di chi pirandellianamente recita la parte del regista. Ma quando uno degli interpreti rende la sua testimonianza, e invece di farlo in proscenio guardando negli occhi gli spettatori, con tutta la carica emotiva che questo porta con sé, lo fa in un angolo in fondo seduto su una sedia, è chiaro che per seguirlo sono meglio le grandi, ma fredde immagini filmate. Lo stesso vale per la scena del pestaggio: in teatro da sempre più del realismo, ha forza l’allusione che moltiplica la potenza di suggestione dell’azione. Il parlato comune non ha mai trovato forza scenica, non ricrea: in scena, come ripeteva sempre Gassman, bisogna dire qualcosa da una parte in un certo modo, in maniera che accada qualcosa da un’altra parte con apparente sostanza di verità. Ma questo Rau lo sa bene, se a chiusura del lavoro vengono recitati versi della Szymborska proprio sulla forza coinvolgente della finzione teatrale.

Detto questo, che non è poco, Rau, che ha ricevuto quest’anno il Premio Europa Teatro per le nuove Realtà Teatrali, realizza uno spettacolo formalmente curato e costruisce il degrado di una città ex industriale, la sua Liegi in Belgio, e soprattutto lavora sull’umanità di chi si trova inevitabilmente coinvolto; mette assieme attori professionisti con una donna che fa la dog sitter per arrotondare la pensione e un manovale che ama misurarsi come Dj; apre la sua ”ripetizione” in cinque scene con i genitori di Ihsane a letto nudi; quindi presenta i suoi assassini e l’incontro col ragazzo fuori di un bar; la testimonianza del compagno di vita di Ihsane che più che accusare, ricorda come questi fosse una persona speciale e quale vuoto abbia lasciato la sua assenza tra chi lo amava, gli amici e così via, sino appunto alla scena del pestaggio in auto (portata in scena con i fari accesi nel buio della… notte) e poi fuori, a terra. Il male si rappresenta, il male si ripete e replica per coinvolgere tutti nel senso di colpa e la pena quali passaggi per una presa di coscienza redentrice. Tutti, da Sebastien Focault a Johan Leysen, Tom Adjbi, Sara De Bosschere e i due non professionisti, Suzy Cocco e Fabien Leenders, sono da lodare per qualità e impegno in questo ”atto creativo” come lo chiama Rau, ma restano gli interrogativi sul perché ciò si svolga a teatro in maniera tanto linguisticamente ambigua, quasi una sfida emblematica al reale e la sua rappresentabilità.

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