All'Accademia di Belle Arti e al Vittoriano
Archetipo Mariani
Con due mostre, Roma rende omaggio a Marcello Mariani, uno degli ultimi maestri dell'arte astratta, scomparso un anno fa. Nelle sue tele dedicata alla tragedia del terremoto dell'Aquila il tentativo estremo di tornare all'essenza dell'uomo
A un anno dalla scomparsa, Roma rende omaggio a Marcello Mariani (1938-2017), uno dei più singolari interpreti europei della pittura astratta, con due mostre in sequenza: la prima già in corso e in cartellone fino al 29 settembre in una sala dell’Accademia di Belle Arti, la seconda che si inaugura il 2 ottobre e si protrarrà per un mese nell’ala Brasini del Vittoriano. Entrambe sono firmate dallo stesso curatore, Gabriele Simongini, storico e critico schierato contro i tagliafuori miopi e modaioli del sistema dell’arte contemporanea. Entrambe sono sponsorizzate dalla Regione Abruzzo, la terra dove l’artista è nato e ha continuato a vivere: raro, di questi tempi, che un’istituzione pubblica investa le sue risorse per tener viva la memoria di un’artista fuori dei riflettori e controtendenza e riconoscergli il titolo di patrimonio locale,,bene da tutelare.
La seconda mostra ha il respiro di un’antologica e ripercorre l’intero arco della carriera dell’autore dai suoi studi all’Accademia di Napoli in poi. Un compendio utilissimo a identificare gli artisti con i quali Marcello Mariani ha contratto un debito di formazione nel costruire il suo percorso creativo e nella scelta dell’astrazione: da Osvaldo Licini a Burri, da Fontana a Beuys, da Rauschenberg a Rotella fino alla folgorazione per l’espressività sciamanica degli aborigeni australiani, all’identificazione con quel senso sacrale del magico, nel quale troverà la sua bussola privilegiata.
Ancora più importante, un prologo incentrato sull’ultimo decennio che è anche un atto di congedo, la prima mostra perché consente anche a un pubblico di non iniziati di accostarsi all’arte astratta senza timori reverenziali e afferrarne i processi, offrendo un metro di misura tangibile e concreto: l’esperienza condivisa del terremoto che nel 2009 devastò il centro de l’Aquila e commosse il mondo.
Era la città dove Marcello Mariani era nato e continuava s vivere, anche a costo di pagar dazio con un inevitabile isolamento. Quei muri così antichi sui quali il tempo aveva impresso i segni del suo passaggio, densi di senso e mistero come inarrivabili capolavori del destino e del caso, Marcello Mariani li vide venir giù, trasformarsi in macerie, con il dolore e una pena di chi vede allontanarsi e scomparire familiari e amici, trasformarsi in un tappeto di ferite e cicatrici la sua anima e la sua pelle. Palazzi, chiese, il suo stesso studio. Un crollo dietro l’altro poi lo sgomento di una città svuotata. Un prima e un dopo testimoniato in mostra da un campionario di foto, scattate da un maestro del bianco e nero come Gianni Berengo Gardin. Accanto, in altre immagini a colori, si vede il pittore, il volto scavato, la barba bianca più ispida del solito, passeggiare tra le rovine e la polvere, guardare i muri sbrecciati. E poi raccogliere come reliquie schegge di mattoni, frammenti di intonaco e legno. Con il sorriso di chi guarda avanti, scopre e indica un futuro possibile. Una via d’uscita da artista. Che vive con intensità doppia la tragedia del perdere forma ma sa che nulla è perso per sempre se riesci a scoprire in quel nulla apparente le altre forme che racchiude. Non importa se ti affidi al rivolo di corrente della figurazione o se invece insegui la libertà di dar voce al disordine , governare l’immaginario del caos. È comunque pittura. Grande pittura se è la necessità che ti guida, e non solo l’artificio di una tecnica, di una maniera, di un materiale da riciclo. E nell’opera si compie il mistero, il rito dell’invisibile che diventa visibile.
Come avviene in quella stupefacente passerella di piccoli quadri, tutti datati 2009, all’indomani dal terremoto, che questa rivisitazione portata in scena dall’Accademia di Belle Arti raccoglie e mette in fila lungo la parete destra. A far da supporto, tavole, cartoni, lastre di masonite. In molti casi cornici scoperte e recuperate tra i detriti, sulle quali Marcello Mariani incastona a sbalzo frammenti e polveri di intonaco, schegge e polvere di mattoni. Finestre di una tragedia che si ribalta in speranza grazie ad altri innesti: ritagli di carta o di pagine di antichi diari incollati sullo sfondo, ragnatele di reti, segni, colature. Ma soprattutto colore, in macchie o stesure dosate. E tonalità che non ti aspetti. Come l’irruzione del celeste che fa irrompere nella visione squarci di un cielo sognato. Oppure un giallo che fa da contrappunto ad una chiazza di catrame, a pallide emersioni di rosa nel grigio opaco di un intonaco sbriciolato.
O ancora altre tracce a pastello, che affiorano dal bianco come lacerti di un mosaico, di un affresco intravisto dalla breccia di uno scavo archeologico. La vita che riprende a respirare, richiama attenzione ed energia. La forma che rivendica la sua inattaccabile e arcaica sovranità. Archetipi – è lo stesso Mariani a battezzarli così – di un mondo che ognuno di noi può intuire se si lascia trascinare dall’immaginario, dall’emozione ridestata da un quadro. E arricchire a dismisura seguendo i sentieri di un proprio atto di fede, le voci di un Dio sconosciuto o di un Angelo che vola oltre l’apparenza muta delle cose. Non c’è bisogno di essere religiosi per farlo. Basta dare un senso all’uomo che è in noi. Come ha fatto Marcello Mariani. Fino a sconfinare in alcuni quadri dai colori più marcati ed accesi verso i fantasmi di una icona riconoscibile. Come quel Crocefisso dalle membra slabbrate, un volto, da pesce o da caprone? inchiodato da tasselli smaltati. O come quell’esplicita aquila in volo, incollata ai margini di un fondale di intonaco sbriciolato. Bandiera di una città che vuol tornare a sventolare la propria voglia di rinascita.