Adriano Napoli
Il romanzo di Marco Balzano

Le parole di Trina

Con “Resto qui”, incentrato su una memorabile figura femminile in un paese di confine al centro della Storia, l’autore ci ha consegnato una riflessione profonda e poetica sulla marginalità intesa come radice della condizione umana

Scandita in tre atti, come ogni dramma che si rispetti, la vicenda narrata da Marco Balzano in Resto qui (Einaudi, 192 pagine, 18 euro, secondo classificato al Premio Strega 2018) intreccia la storia di Trina, della sua famiglia e della piccola comunità del paese di Curon in Valvenosta, a pochi passi dal confine austriaco, alla Storia maiuscola dagli anni dell’avvento del fascismo, della guerra e del controverso dopoguerra. Cionostante la dimensione del tempo percepito e narrato in prima persona dalla protagonista non pertiene alla linearità bensì (come suggeritoci fin dalla soglia del libro, dal titolo e dall’immagine emblematica del campanile che emerge dalla superficie delle acque che hanno invaso e ricoperto il paese) alla resistenza e all’inerzia. È a questa forza assertiva e tenace che Trina affida la sua intera vita affrontando l’attrito con la realtà impetuosa che progressivamente la sommerge.

Quando il fascismo la costringe a preparare l’esame da maestra nella lingua estranea dei dominatori; attendendo che sia il padre a imporle come marito l’uomo che fin da piccola ha liberamente desiderato. E quando la figlia più piccola scompare all’improvviso dal paese per non farvi mai più ritorno, lasciandole una maternità irreparabilmente monca. E ancora quando il figlio Michael si arruola volontario nell’esercito di Hitler; e quando seguendo tra le montagne il marito disertore, sperimenta lo sradicamento e la fame, e impara a contemplare la morte, e a uccidere.

L’inerzia non protegge né guarisce dalle ferite del tempo e della storia. Anzi. «Anche le ferite che non guariscono prima o poi smettono di sanguinare. La rabbia, persino quella della violenza inflitta, è destinata come tutto a slentarsi, ad arrendersi a qualcosa di più grande di cui non conosco il nome. Bisognerebbe saper interrogare le montagne per sapere quello che è stato». L’esistenza di Trina appare via via svuotata, ridotta a un esile filamento, estirpata dalla terra che la nutriva dalla permanenza della guerra, della violenza nella condizione umana: sia essa quella ottusa del potere totalitario e più tardi quella ambigua e seducente che si cela sotto le insegne effimere del progresso. La lenta costruzione della diga, cronotopo che attraversa come il lavorio di una talpa il racconto dagli anni del nazi-fascismo a quelli della “ricostruzione” rappresenta questa operosità cieca e nullificante che senza soluzione di continuità erode e distrugge luoghi e identità recingendo nell’illusione del pieno, di uno viluppo solo apparente, lo spazio mortifero e deumanizzato di un vuoto di identità che sommerge luoghi cose e persone; e contro cui con vana determinazione il marito Erich, il sacerdote padre Alfred e la coscienza tardiva di una comunità che crede solo in ciò che è visibile tenteranno di opporsi. “La fiumana della Storia”, si potrebbe concludere, riesumando una celebre formula verghiana.

Trina, invece, è una donna fedele alla sua vocazione, disposta dunque a corrispondere a una voce che la chiama. Fin da bambina «affamata di solitudine», capace di tacere l’amore, legandosi a un uomo che combacia con il suo silenzio, Trina è e rimane una maestra, soprattutto quando la legge o l’orgoglio le impediscono di svolgere il suo lavoro. Una maestra che esercita il suo magistero non soltanto nelle stalle e le cantine insegnando clandestinamente a una sparuta classe di bambini a scrivere e disegnare, o in un maso di montagna esposto alle rappresaglie dei tedeschi dove aiuta la bambina muta Maria a riappropriarsi del proprio immaginario incidendo segni sulla neve. Trina conosce soprattutto e coltiva il valore simbolico e trasfigurante della parola. Un potere importante ma impotente (come ci ricorda Balzano nella nota a conclusione del libro) a fronte dell’altro potere.

«Non basteranno le parole a salvarvi» è infatti la replica impassibile dell’ingegnere responsabile della costruzione della diga dopo che la sua scrivania è stata inondata dai messaggi e i pensierini scritti dai piccoli allievi di Trina. Non basteranno gli articoli pubblicati sui giornali esteri, le interpellanze a deputati e ministri, le udienze papali, l’opera di sensibilizzazione rivolta all’opinione pubblica e ai comuni limitrofi, per fermare lo scempio ai danni di una minoranza confinata ai margini dell’Italia e del mondo civile. Eppure Trina continua a scrivere, a interrogare le parole, consapevole che il loro destino sarà il macero, nella polvere e nel fuoco. Perché la parola è insufficiente, è essa stessa un limite, il confine che ci affaccia al vuoto che non sappiamo arginare. Come la cima del campanile di Curon, inerme e irriducibile, che continua nonostante tutto a stare, su questa linea di confine sepolta dalle acque, la parola di Trina continua a interrogare ciò che resta per «sapere quello che è stato».

È stato scritto che occorre un caos per fare un cosmo. E il vuoto forse è l’archetipo supremo di ogni caos. Ed è in quel vuoto che la parola inerme di Trina trasfigura le acque morte del lago artificiale (segno di una civiltà artificiale) nel liquido amniotico di una vita, individuale e comunitaria, che si ostina a farsi voce, contrapponendo alla disumanizzazione del potere l’inerzia di un gesto resistente di umiltà (s’intenda, etimologicamente: restare attaccati alla terra) e con esso la preservazione di una dimensione umana della vita stessa, identificabile nelle forme sfuggenti del desiderio, dell’Amore. Balzano con questo romanzo ci ha dedicato una riflessione altissima e poetica sulla marginalità, intesa non solo come limite geografico e politico, ma come radice della condizione umana, indicandoci il punto impervio e remoto dal quale ogni esistenza osserva e interroga, cominciando il suo cammino.

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