Luca Zipoli
A proposito di “Nucleo non attinto”

Toccare il Nulla

Già autore di “Lo scorrere e il rifluire” e di altre liriche singole, apprezzate in competizioni letterarie nazionali e apparse in volumi collettanei, Nicola Curzi firma la sua seconda raccolta di poesie: “Nucleo non attinto”. Un po’ filosofo, un po’ poeta, esplora l’impossibilità di attingere al cuore della verità

Spessore concettuale e densità delle immagini sono i segni distintivi del suo timbro poetico: è Nicola Curzi. Classe 1993, marchigiano studioso di filosofia presso la Scuola Normale di Pisa, esordiva con la raccolta Lo scorrere e il rifluire (Sena Nova, 2010), dà alle stampe il suo secondo libro di poesia: Nucleo non attinto (Aletti Editore, 2018). Un più accentuato tragitto narrativo interno differenzia questa seconda prova poetica dall’esordio. Un unico tema viene sviluppato nelle 33 liriche del volume: il negativo e la mancanza di senso. Il “nucleo non attinto”, infatti, per Curzi è l’impossibilità di raggiungere la verità delle cose, l’incapacità di attingere a una dimensione profonda dell’esistenza che dia pienezza di senso al mondo e al soggetto che lo percepisce. Come recita uno dei tanti versi marmorei che puntellano il dettato di Curzi, «il mondo accade e basta», la realtà si apre al soggetto senza una certezza definitiva da offrire, ricca solo di «assoluti sgretolati», e l’io esiste in «un involucro di buio», impossibilitato a raggiungere una comprensione totale di sé e del mondo. Il cuore stesso del poeta è un «vento immutabile e muto», un elemento incapace di entrare in risonanza piena con il mondo e che può, quindi, limitarsi solo a registrare l’incompiutezza del reale.

Segmento interrotto, Calore incompiuto, Trasfigurazione mancata: sono i significativi titoli delle tre sezioni della silloge, vera e propria dichiarazione di intenti attraverso i quali si palesa l’ossatura argomentativa del libro. Il giovane poeta si mescola al filosofo nella sua recherche (disattesa) di certezze gnoseologiche e di pienezza vitale. Dopo l’impossibilità di una conoscenza esatta del reale (Parte I), avviene l’incontro con l’altro da sé (Parte II), fino alla conferma dell’incapacità di cambiamento e il passaggio dall’azione all’inerzia (a chiusura del trittico). Si aprono degli squarci possibili di senso, dei “varchi” che montalianamente accendono la speranza di attingere alla verità sulle cose, ma in Nucleo non attinto nessuna di queste possibilità riesce a concretizzarsi in un’opzione concreta di salvezza e queste ipotesi di senso sono costrette a rimanere interrogativi senza risposta. Anche l’incontro con l’altro, con una figura femminile che fa la sua prima esplicita comparsa nella lirica Lasciai uno spiraglio fioco, non determina una svolta esistenziale e non dà accesso a una sfera più autentica, collocata al di là della «corolla del contingente»: anche dopo l’unione con lei, che viene descritta con potenti immagini sintetiche di corporeo e spirituale, l’io rimane un «cuore di cartapesta» e l’amore un sentimento non totalizzante, esperibile solo «a brandelli». Sono irrimediabilmente dimostrati tanto la precarietà di significato e la sfiducia nella totalità, quanto la mancanza di un approdo certo nel percorso di senso compiuto dall’io lirico.

Lo stile dei testi sottolinea lo stato di incertezza che l’io lirico esperisce nel suo contatto con la realtà. Saldamente incardinate sulla tradizione novecentesca del verso libero, le liriche sono costituite per lo più da versi brevi giustapposti in paratassi tra di loro; il ritmo franto e discontinuo sembra mimare l’incapacità di un discorso totale sulla realtà e la rassegnazione del pensiero alla caduta inesorabile di ogni illusione. Non manca un proficuo confronto con la tradizione poetica occidentale, come avviene, ad esempio, nella lirica Tentasti infine i calcoli babilonesi, ricalcata sul noto carme di Orazio. La cifra distintiva della scrittura di Curzi, però, è da individuarsi nel vasto dispiegamento di sinestesie e di arditi accostamenti analogici che si riscontra in ogni testo («spighe screziate di buio», «scaleno d’orge», «occhiate di carezze» alcune delle più memorabili), nei quali tuttavia non va ravvisato un mero repêchage tardo-simbolista, ma un’esigenza espressiva più complessa. Più che testimoniare le capacità superiori di un poeta veggente in grado di raggiungere il cuore delle cose, i virtuosismi analogici vengono utilizzati dal poeta per trascrivere sul piano verbale l’assurdità del reale. E nel testo si materializza l’esperienza di mistero – altrimenti indecifrabile – che l’io ha nel confronto con il reale. Nicola Curzi non cede mai ad un’oscurità sterile e mai abbandona la spiccata vena argomentativa, offrendo al lettore un’interessante percorso a contatto con il Nulla.

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