Francesco Arturo Saponaro
“La Traviata” alle Terme di Caracalla

Violetta al tempo della Dolce Vita

Un po’ nello stile del capolavoro felliniano, un po’ in quello de “La grande bellezza”, convince per dinamicità e brio la messinscena romana dell’opera di Verdi firmata da Lorenzo Mariani. Raffinata e intelligente la direzione d’orchestra di Yves Abel. Così i pochi passatisti insoddisfatti sono stati messi a tacere da fragorosi applausi

Neanche erano passati cinque minuti dall’inizio. Due file dietro, una voce prova a gridare «vergogna» sulle note del Preludio, con Violetta Valery che silenziosa si aggira da sola sulla scena in abito rosso, circondata e inseguita da paparazzi col flash facile. Vergogna perché? Per il movimento scenico già sul Preludio orchestrale? Per l’ambientazione contemporanea? Boh. Tanto nessuno dà retta allo spettatore passatista, che rimane isolato. E altrettanto succede alla fine, quando solo pochi nostalgici provano a lanciare qualche timido buuu alla messinscena, che invece è accolta da una messe di applausi. Perché proprio il progetto scenico, insieme alla direzione d’orchestra, è il fattore che imprime alta qualità allo spettacolo. Alle Terme di Caracalla in Roma, per la stagione estiva del Teatro dell’Opera, è andata in scena una riuscita edizione della Traviata, di Giuseppe Verdi.

La regia di Lorenzo Mariani colloca la vicenda agli anni cinquanta del Novecento, in pieno ambiente “Dolce vita”. La scenografia, firmata da Alessandro Camera, è dominata da una grande cornice rettangolare di neon, che ospita i momenti topici, e funziona da struttura mobile, che nei quadri successivi si trasforma. Colorato e vivacissimo il movimento in palcoscenico, invaso da folle vocianti, ciniche, invadenti, esibizioniste, com’era appunto nella Dolce vita. E, già per cominciare, il celebre brindisi è lontano da clichés paludati e stucchevoli. Belli i costumi coevi di Silvia Aymonino, le luci di Roberto Venturi, i video di Fabio Iaquone e Luca Attili, proiettati sulle monumentali quinte dei ruderi. Protestare per il vigile che fischia sulla pedanina a cilindro che un tempo troneggiava a Piazza Venezia? O per le cinque Lambrette, elettriche peraltro, che fanno tanto Vacanze romane? Piccoli, momentanei flash che invece rendono dinamica e briosa la presenza delle masse.

Infatti appare centrata, nel secondo atto, anche l’idea del salotto di Flora, popolato da una festa eccessiva e pacchiana, tipo film La grande bellezza, e quindi ben lontana dal solito armamentario di specchiere, divani, merletti e stucchi. Ed è divertente il ballo delle zingarelle (coreografia di Luciano Cannito), affidato a danzatrici agghindate da escort impellicciate, in guepière e calze autoreggenti, che sventolano il lato B, mentre i matadores danzano indossando giubbotti di pelle da Chicago Bulls. Incisiva anche la scena finale, segnata da un ambiente in rovina: cornice al neon ormai spenta e crollata, sedie e Lambrette rovesciate, Violetta morente su un mucchio di cenci, tra i quali il vistoso manifesto dell’inizio. E funziona anche l’idea dei fotografi che paparazzano Violetta defunta, tra il lampeggio di luci stroboscopiche. A pensarci bene, oggi La traviata è opera non così facile da rendere credibile, perché ai nostri occhi Violetta stessa non lo è fino in fondo: nessuna donna di oggi, infatti, rinuncerebbe all’uomo che ama, in ossequio alle convenzioni sociali.

Ma il fattore decisivo, per la qualità dell’allestimento è stata la direzione d’orchestra, raffinata e intelligente. Yves Abel, già esperto della dimensione acustica nelle Terme di Caracalla per altre riuscite esperienze, ha guidato orchestra e coro, preparato da Roberto Gabbiani, con preciso equilibrio nel dosaggio dei colori, nel controllo delle dinamiche, nel disegno del fraseggio. Una concertazione, questa di Abel, attentissima ai particolari e al peso di sonorità sempre appropriate, ricavando dall’orchestra anche notevole bellezza di suono. E ha ottenuto così un esito di nitida presa teatrale, grazie alla snellezza degli stacchi ritmici, al controllo continuo delle voci, a una misura espressiva ben calibrata in buca orchestrale, e attenta a focalizzare i momenti centrali, tipo la festa del secondo atto oppure il finale, con gli archi ben contenuti per dare spazio al canto. La tensione impressa dalla bacchetta di Yves Abel ha fatto quindi affiorare la temperatura drammatica più opportuna nel divenire della vicenda, tenendo con la sua linea di gusto i cantanti alla larga da languori improprî, pur ricavandone accenti di ardente sensibilità.

Violetta era il soprano russo Kristina Mkhitarian, voce di bel velluto, morbido e intenso, limpida nelle tremende agilità di È strano, nell’atto primo, ma capace anche di toccanti accenti che trasmettono la sofferenza del personaggio, come in Addio del passato, senza lacrimevoli affettazioni. Il tenore Alessandro Scotto di Luzio tratteggia un Alfredo interessante nel garbo e nella finezza dell’accento, anche se la condotta vocale non è sempre solidamente strutturata, con dei momenti un po’ sfocati. Unico personaggio che rimane se stesso in questa messinscena, l’argentino Fabián Veloz ci rende un Giorgio Germont ben inquadrato nel binario di padre nobile, alfiere di pesanti pregiudizi, formalmente inappuntabile: un paradigma di baritono cantabile verdiano. Perfetto anche lo stuolo di comprimari, affidato alle voci esperte di Roberto Accurso, Douphol, Domenico Colaianni, Obigny, Graziano Dellavalle, Grenvil. E, insieme a loro, ben riuscita anche la partecipazione dei tre cantanti maturati nel progetto “Fabbrica”, programma del Teatro dell’Opera per giovani artisti: Irida Dragoti, Flora, Rafaela Albuquerque, Annina, Murat Can Güvem, Gastone.

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