La scomparsa del grande romanziere
Le parole di Roth
Philip Roth è stato colui che ha unito, indubbiamente più di altri, l’alta cultura alla cultura popolare, decretando di fatto la vittoria del midcult tramite un sovrano bilanciamento tra grazia e cruda ordinarietà
Ho sempre ammirato una frase di Philip Roth abbastanza celebre, da L’animale morente, tanto da rimbalzare spesso sui social: «L’unica ossessione che vogliono tutti: l’“amore”. Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l’amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due». È un pensiero che può delineare l’intera opera del romanziere di Newark per due ordini di ragioni, in sostanza: lo stile, immediato, incalzante, insolente; e la visione delle cose appunto diversa, volutamente diversa, coscientemente in opposizione rispetto alle normali credenze. Sarebbe inutile fare ora un elenco (sterminato, per altro) dei suoi libri. Ma non è sciocco chiedersi il perché non gli sia stato assegnato il Nobel. Roth era l’autore mainstream per eccellenza, colui che più di tutti ha ricevuto il consenso e l’alloro dalla società a cui pure si negava (dal 2012 si era trasferito in isolamento nella campagna del Connecticut). È stato colui che ha unito, indubbiamente più di altri, l’alta cultura alla cultura popolare, decretando di fatto la vittoria del midcult – in una maniera assai differente da come aveva preconizzato MacDonald, il quale anche lo apprezzava –, quel sovrano bilanciamento tra grazia e cruda ordinarietà, l’imeneo per l’aristocrazia e il liberalismo letterario suonato dal middlebrow.
Basta aprire una pagina a caso di Pastorale americana, premiata con il Pulitzer: c’è un microcosmo antipuritano di parole e di etichette (ciò forse non piaceva all’Accademia), un andamento chiaramente non petrarchesco della lingua – non distillato – che mescola l’altezza e l’urgenza di alcune riflessioni con la trivialità del parlato, e nomina con pervicacia ogni cosa riesca a nominare. È una forma narrativa del dire tutto quello che c’è senza voler scegliere, senza rimarcare il confine tra il letterario e il non letterario, tra l’opera d’arte e il catalogo degli oggetti (ammesso che tale confine esista). È questa la contemporaneità, che piaccia o no, il momento di maggiore ibridazione tra registri stilistici che la letteratura abbia conosciuto. Ebbene non era forse lui l’ideale rappresentante di quella scrittura che l’Accademia ha invece voluto premiare con Dylan e con Ishiguro, mostrando forse un passo più lungo della gamba?
Jerseyniano come Springsteen, ebreo come Bellow, di origine galiziana come la famiglia Moskat di Singer, Roth esordisce a ventisei anni con Addio, Columbus, un florilegio di racconti che spiattellano subito le sue modulazioni più care: la feroce ironia, il distacco misantropico, le ipocrisie del tempo, le perversioni esibite del sentimento. Nel ’69 avviene la consacrazione con Lamento di Portnoy, un monologo in cui il protagonista, à la Zeno Cosini (più o meno…), rivela allo psicanalista il memoriale della sua vita. Il referto volge verso la sconsolante ricerca del piacere a ogni costo, ma ricrea uno spaccato delle tradizioni ebraico-americane nel quale si nota forse lo stimma di un peccato originale mai rimosso nello scrittore, la famosa «macchia» che determina il passaggio umano nel mondo. Anche dileggiando, ridicolizzando o addirittura osteggiando quell’origine, sembra impossibile uscirne. Un altro elemento dominante: il tic, o meglio la poetica del tic che ritornerà in ogni romanzo come a voler grattare sull’esistere da cui ugualmente non si può in alcun modo defluire. Cinque anni dopo, con La mia vita di uomo, nasce Nathan Zuckerman, il senhal che permette temporaneamente una fuoriuscita. «Creare false biografie, una storia immaginaria, plasmare un’esistenza mezza inventata dal dramma reale della mia vita, è la mia vita», dichiarò una volta a Paris Review. Nello Scrittore fantasma (1979) – prima opera in cui l’alter ego è protagonista – e in Zuckerman scatenato (1981) è infatti la lacerazione dell’identità a rivendicare un principio di partecipazione all’interno, pur sempre, di una catena di umane miserie: resta il mosaico, la deposizione lasciata dallo scrittore dissociato, Zuckerman, ora semplicemente testimone inerte e narratore (un po’ come il Dostoevskij dei Demoni), della trilogia della catastrofe: Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998), La macchia umana (2000). Sintomatica è la figura di Merry, figlia dello Svedese nel primo dei tre libri: una teppistella dinamitarda che fa disperare il padre, reo di avere fino ad allora una vita perfetta. Figura che lo stesso scrittore (Roth o Zuckerman?) sembra di sottecchi invidiare nella sua cieca ribellione, in quello slancio vitale che le non appartiene e mai più tornerà. Donna agli antipodi di ogni possibile intelligenza angelica, ma che possiede quel tumulto interno il quale, contro ogni speranza, fa sperare allo Svedese – e con lui alla doppiezza del testimone – un lontano ravvedimento, una promessa di felicità non raggiunta, non raggiungibile. Qui si avverte la tragica mancanza di uno sfondo religioso.
L’iconicità e il simbolo della “perfezione pastorale”, retta dalla fragile architettura dell’apparenza, va così in frantumi. Rimane la «macchia dell’impurità», il «seme» dell’essere qui, unica nostra impronta capace di attestare la realtà vanamente celebrativa di ciò che è stato. Una disperazione certamente commovente, quella di Seymour Levov, conclusasi in ciò in cui Roth ha sempre creduto: i pezzi. Dell’amore. Di una figlia difficilmente amata. Del mosaico della vita da raccontare ancora.