A proposito di “L’importante è esagerare”
Jannacci è Milano
Nando Mainardi racconta vita, opere e soprattutto miracoli di Enzo Jannacci: un artista raffinato, un narratore in musica che stava sempre dalla parte degli ultimi. E della sua città
«…Natalia che hai solo sette anni e fai la figlia di ferroviere / proprio quello al quale il professore di Torino ha chiesto venti milioni / ben sapendo che male che vada c’è sempre la colletta / e siamo bei freschi di tasse / è tutto Natalia/Natalia che hai capito che all’ospedale di Milano / sei la numero trentotto giù in lista di attesa / Natalia con la valvola nel cuore messa dalla parte sbagliata / già ma queste son cose che la canzone non dice mai, mah…». Ovvero la malasanità messa in versi e in musica da Enzo Jannacci nel 1979.
Una coltellata allo stomaco, meglio di un articolo in cronaca. Enzo detto Schizzo dagli amici, per via del fisico secco e nervoso ma forse anche per una tendenza schizofrenica alle mille vite. Musicista diplomato al conservatorio, cantautore, cabarettista, sceneggiatore, istruttore di karate, medico della mutua e cardiologo con studi in Sudafrica e negli Stati Uniti, all’epoca di Natalia collaborava con il cardiochirurgo infantile Gaetano Azzolina. Raccontò anche di aver collaborato con Christiaan Barnard, ma secondo Nando Mainardi, autore della biografia dettagliatissima L’importante è esagerare. Storia di Enzo Jannacci (Vololibero, 2017, 274 pag. 19 euro) il cardiochirurgo sudafricano ammise solo di averlo sentito nominare.
Colpi di scena, cambi di rotta, sterzate: leggere il racconto della vita di Jannacci è come salire sull’otto volante, un saliscendi di successi e di delusioni, di alti e bassi, inseguendo la vita di un artista inclassificabile e anarchico, impegnato a suo modo a raccontare l’esclusione sociale, ma con tenerezza, senza mai indossare l’abito dell’engagé o del militante. Per chi è di Milano o ama Milano, è un avventurarsi per la toponomastica poetica che ogni canzone racconta. Soprattutto le periferie: l’Ortica e Baggio, Rogoredo, l’Idroscalo, i Navigli. (Faceva il Palo, Andava a Rogoredo, Prendeva il treno, Vincenzina e la fabbrica). Una Milano che cambia molto nel corso di 50 anni ma in fondo non troppo perché lui la guarda sempre dalla stessa postazione, ossia dal basso, vedendo quindi più o meno le stesse cose: emarginati, perdenti, diversi.
Diceva: «Lei ha presente i diversi? No? E allora glielo dico io: sono qua apposta. I diversi sono coloro per i quali noi siamo diversi». Del resto Scarp de tenis è il nome dello storico giornale di strada milanese che dal 1994 racconta il popolo dei senza dimora, dall’inno dei barboni El purtava i scarp de tennis scritto con Dario Fo. “Enzo Jannacci” si chiama la casa dell’accoglienza delle persone in difficoltà, oggi soprattutto migranti. E il dialetto milanese alla Jannacci, cioè di un immigrato di seconda generazione, figlio di pugliesi, è diventato la lingua madre di quel mondo da marciapiede, una lingua dell’anima, polifonica, comica, dolente.
Anche le amicizie tracciano una geografia tutta milanese: dagli esordi nella band di Celentano con Gaber, Tenco, all’incontro folgorante con Dario Fo al teatro Gerolamo, alla collaborazione con l’amico d’infanzia Beppe Viola, (con cui scrisse tra l’altro Quelli che) e poi l’avventura del Derby, storico cabaret milanese e fucina di attori di varie generazioni grazie all’opera di talent scout di Jannacci, da Boldi a Cochi e Renato, da Teocoli a Paolo Rossi.
Dal libro di Mainardi emerge chiaro un dato di fatto: la passione e la generosità di Jannacci nel coinvolgere giovani che poi prendono il largo e brillano di luce propria, mentre lui esce dal cono di luce. Anche a causa di un carattere non facile, di una tendenza a scompigliare i piani e le aspettative. Molte delusioni lo configurano comunque come un emarginato di successo, capace di rialzarsi e tornare, rimanendo sempre fedele a se stesso, «a prescindere». Il 29 marzo 2018, a cinque anni dalla morte Milano lo ha ricordato con diverse iniziative, tra le quali un documentario con alcuni inediti e alcune apparizioni al cinema, un rapporto complicato e sostanzialmente insoddisfacente, come quello con la televisione. Un pezzetto di storia è la scena in cui Jannacci giovanissimo interpreta se stesso e canta L’ombrello di mio fratello al Giamaica ne La vita agra di Lizzani (1964) tratto dal romanzo di Luciano Bianciardi, di cui Jannacci sarà amico e collaboratore. Di Bianciardi raccontava: «Mi chiedeva: “Jannaccione, cosa ne pensi del mondo?”, e io rispondevo che ne pensavo malissimo. Fingono tutti, abbiamo perso la guerra, siamo poveri e nessuno lo dice. Tutta la mia produzione pseudo-poetica parla di un Paese che fa finta di essere ricco e colto ma non pensa, non legge, non capisce».
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