Quarant'anni dopo
Ombre dopo Moro
La guerra fredda, le divisioni nelle Br e quelle nella Dc: vediamo - a partire da questo intreccio di interessi anche contrapposti - quali sono state le conseguenze del caso Moro sull'Italia dopo la caduta del Muro
Il rapimento di Aldo Moro fu un intreccio di “giochi” assai complesso, una sciarada violenta piena di cifrature. Pensate di guardare tre partite a scacchi dall’alto, su scacchiere trasparenti. Vi dovrete impegnare in un estenuante esercizio di concentrazione per distinguere a quale partita appartenga ogni mossa. Potreste sbagliare spesso e confondervi, assegnando una mossa al “campo” sbagliato. Le scacchiere su cui fu giocata la tragica partita di Moro furono almeno tre. La prima era quella della guerra fredda e dello status dell’Italia in qualità di paese “sconfitto” secondo il Trattato di Parigi del 1947. La seconda era rappresentata dalle strategie interne e internazionali delle BR e dallla loro molto probabile infiltrazione da parte di tutti gli “interessi” in campo. Una terza scacchiera erano i giochi di potere interni alla DC e alla politica nazionale, che guardava più alle opportunità interne (era già cominciato il saccheggio delle risorse nazionali) che a giochi politici al di fuori della propria portata e capacità di comprensione e gestione. Alcune di queste scacchiere sono poi rimaste attive anche dopo la caduta del muro di Berlino. Cercheremo di capire perché.
Una ulteriore difficoltà nel comprendere il caso Moro risiede, in parte, nella scarsa dimestichezza degli organi di stampa e politici dell’epoca con le sofisticate strategie indotte dalla guerra fredda, dalla prassi comune che queste comportavano e dal fatto che a raccontare le cronache o le trame erano i “media-attivisti” dell’una o dell’altra parte. Il volume di informazioni che oggi abbiamo a disposizione è enorme e se spesso alcuni tasselli del puzzle non sono messi proprio nel posto giusto, è solo questione di tempo. Dopo il primo articolo (Il Moro di gomma, clicca qui per leggerlo) dove abbiamo fatto un quadro molto sommario del “caso” ma inquadrato storicamente, è utile fare un po’ di luce su alcuni punti chiave della vicenda legata al rapimento del politico DC, proprio per cercare di giustapporre alcune tessere del puzzle. Senza per questo avere alcuna pretesa di essere minimamente esaustivi con un semplice articolo.
Cui prodest?
Le due BR, ovvero l’ipotesi di etero-direzione o di influenza del gruppo eversivo per interessi “non dicibili”. Questa è una teoria emersa da tempo e che inizialmente sembrava ancora funzionale a una certa “propaganda”, sgravare le responsabilità della lotta armata. Ma serve giudicare i fatti, indipendentemente dalle tesi. La cappa di “omertà” su molte vicende degli “anni di piombo” aveva retto anche la caduta del Muro di Berlino, ora servirebbe capirne i motivi. La lettura delle due BR, quelle degli albori di Renato Curcio e Alberto Franceschini e quelle di Mario Moretti poi, aveva avuto un padrino molto credibile, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, convinto che la centrale strategica fosse a Parigi.
Era però stata inizialmente utilizzata più per le schermaglie politiche italiane che per una genuina volontà di verità. Da un lato veniva letta come il tentativo di buttare la responsabilità dell’assassinio di Moro nel campo avverso: gli inglesi, con Nixon e Kissinger che vedevano il “compromesso storico” come il fumo negli occhi avrebbero, magari con tacito assenso di Brezhnev che non voleva un “Tito” italiano, intossicato le BR e legato le mani agli apparati italiani (già di per sé depotenziati) affinché Moro non tornasse vivo dalla prigionia. È verosimile, ma Nixon era stato messo fuori gioco dal Watergate già dal 1973 e Kissinger dirottato sotto il controllo del Dipartimento di stato, durante l’amministrazione di Gerald Ford. C’era Jimmy Carter alla Casa Bianca (1977-1981), Zbigniew Brzezinski era al National security council e l’ambasciatore a Roma Richard Gardner era arrivato in via Veneto nel Marzo del 1977. Gardner aveva subito convocato il capo stazione CIA in Italia Hugh Montgomery, tracciando una precisa linea rossa dettata espressamente da Carter: gli Usa non avrebbero svolto “alcuna attività illegale” per impedire l’arrivo dei comunisti al governo. Avrebbero solo esercitato una moral suasion rendendo chiaro il loro “non gradimento”. A onor del vero va ricordato che il problema del controllo “politico” diretto delle agenzie d’intelligence USA all’estero fu però risolto, in via definitiva, solo durante il primo mandato di Bill Clinton. Gardner dovette dunque imporre a Montgomery che ogni cablo dei servizi passasse dal suo tavolo prima di essere spedito. La CIA aveva informatori anche all’interno del PCI, il che dava a Langley molta autonomia di manovra. Dunque Carter avrebbe staccato la spina alle covert operation in Italia.
In via del tutto ipotetica, questo sarebbe plausibile vista una certa coincidenza delle date: naufragio di Nixon nel 1973 e uscita dalla scena “ufficiale” dalle BR in Italia di Corrado Simioni nel 1974. Anche se voci lo collocherebbero di nuovo a Roma nel 1978. Ma qui siamo nel campo delle illazioni. L’anticomunismo di ogni amministrazione USA è stata una costante, quello che cambiava era la declinazione politica all’estero di questa tendenza. Basterebbe pensare a JFK e Nixon tutte e due “anticomunisti” doc, ma con uno stile politico totalmente differente. Per cui questa non sarebbe una tesi campata in aria, visti i numerosi documenti desecretati di riunioni fra top leader di paesi come Inghilterra, Francia, Germania e Usa in cui si trattava il problema Italia, il “pericolo dei comunisti al governo” e i metodi “non ortodossi” per impedirlo. Giovanni Fasanella nel suo più recente libro (Il Puzzle Moro) ha fatto un intenso lavoro di ricerca documentale, rendendo pubblici carte utili per l’inquadramento storico della vicenda.
Che le BR fossero infiltrate un po’ da tutti i big player è quasi scontato. Meno scontato il ruolo effettivamente svolto da questi infiltrati. Potevano essere semplici antenne attive, oppure “influencer” e non è ancora chiaro se fossero attori di doppi o tripli giochi. Servirebbe che qualcuno cominciasse a parlare, visto anche che i vecchi equilibri di potere in Italia stanno scomparendo dopo le elezioni del 4 Marzo 2018. La permanenza dei legami e delle strutture di potere creatisi nella guerra fredda, fanno dell’Italia un caso di studio. Ma torneremo in seguito su questo argomento.
Anche Mosca avrebbe avuto interesse a insabbiare il progetto politico che voleva portare i comunisti italiani al governo, in forma diretta o indiretta: l’eurocomunismo poteva contagiare altri paesi del Patto di Varsavia. All’URSS erano bastate le rivolte in Ungheria e Cecoslovacchia per poter sopportare un altro focolaio di comunismo lontano dalle liturgie e dal ferreo controllo moscovita. Il Cremlino aveva i suoi uomini all’interno del PCI e fuori. Monitorava tutti i gruppi eversivi in Italia (anche quelli di destra). E potrebbe aver avuto un doppio interesse ad alzare il livello dello scontro terrorismo-istituzioni nello Stivale. Anni fa ci occupammo dell’editing di un libro sulla vicenda Kuklinski, un ufficiale dell’esercito polacco che defezionò negli anni Ottanta, scappando negli USA. Una delle ragioni che lo portarono a “tradire” la Polonia allora sotto il giogo sovietico (oltre a motivi di carattere religioso) fu l’aver avuto accesso ai nuovi piani militari studiati a Mosca per l’Europa. A metà anni Settanta l’URSS prevedeva che un’invasione dell’Europa Occidentale non avrebbe scatenato una risposta nucleare massiccia come prevedeva la dottrina Eisenhower, ma anche una risposta “flessibile” come previsto da quella Kennedy (elaborata dal segretario alla Difesa McNamara) avrebbe avuto una scarsa possibilità di essere effettivamente applicata. In soldoni: l’URSS, a torto o ragione, credeva che gli USA non avrebbero rischiato un conflitto atomico per salvare l’Europa. Quindi erano stati studiati nuovi piani con l’ipotesi d’invasione e distribuiti ai comandi del Patto di Varsavia. Come spesso accade, i militari si preparano all’eventualità, poi è la politica a decidere. Tra i vari allegati dei nuovi piani operativi c’era anche quello che riguardava una intensificazione dell’attività terroristica nei paesi NATO. Anche in questo caso il periodo storico coinciderebbe con l’intensificarsi del terrorismo rosso (ma non solo) in Italia. Coincidenze.
Le due BR
Durante i 55 giorni del sequestro fu chiaro che esistevano due posizioni distinte all’interno delle BR. Almeno così è apparso. Una aperta al dialogo e alla trattativa, che puntava a un riconoscimento del gruppo brigatista come interlocutore politico, l’altra più decisa e legata alle logiche del partito armato. Il gruppo in carcere, era composto prevalentemente dai BR della prima ora, così intrisi di dogmi ideologici da produrre un’elaborazione strategica modesta. La seconda, che ruotava intorno al nucleo romano di Autonomia operaia e che aveva Moretti come leader era influenzata ideologicamente dai guru di Potere Operaio, come Toni Negri e Franco Piperno. Altro livello di elaborazione politica. Questo gruppo aveva sviluppato legami internazionali che passavano dalla Francia e arrivavano fino in Inghilterra.
Su Moretti fu anche istruita un’inchiesta interna alle BR. Perché? Moretti, pur essendo venuto a conoscenza del prossimo arresto di Curcio e Franceschini (con 3 giorni d’anticipo e avvenuto l’8 settembre 1974), non li avvisò. Secondo la deposizione di Franceschini, «il primo che mi ha detto che, secondo lui, Moretti era un infiltrato è stato Curcio». La verifica su Moretti fu affidata a Bonisoli e Azzolini che però conclusero che fosse “pulito”. Curcio non si fidava neanche di Feltrinelli, forse per via della forte differenza culturale e sociale. Le differenze tra nucleo storico delle BR e delle “BR più Moretti” erano sostanzialmente “politiche” e qualitative. I primi non volevano compromessi. E sul sequestro Moro le posizioni divergevano. Per Curcio e Franceschini era un attacco al cosiddetto “compromesso storico”, per chi teneva prigioniero il politico pugliese, doveva essere un processo alla Democrazia Cristiana. Poteva sembrare una questione di lana caprina, vista col senno di poi, ma sarebbe stata la differenza tra vita e morte per lo statista democristiano. Anche se le opinioni all’interno delle BR non sono univoche su questo punto.
Adriana Faranda ha affermato davanti alla commissione che «l’esito tragico del sequestro di Aldo Moro non era stato deciso fin dall’inizio (…) ma era chiaro che non sarebbe stato liberato in assenza di contropartite come era avvenuto per il caso Sossi». Il pubblico ministero del processo al Gruppo XXII Ottobre, venne rapito a Genova il 18 Aprile del 1974 e rilasciato a Milano il 22 Maggio seguente. Di diverso parere altri brigatisti che consideravano l’eccidio della scorta come un fatto che avrebbe chiuso ogni possibilità di trattativa.
Hyperion
Sarebbe stata costituita nel 1976 anche dai BR che avevano accettato il patto proposto dal PCI nel 1974, abbandonare la lotta armata in cambio di espatrio e impunità (la Francia della dottrina Mitterrand garantiva protezione a molti terroristi). Probabilmente fu l’evoluzione di una rete già esistente in Francia, chiamata Agorà che serviva da supporto logistico per terroristi in fuga.
Dall’Italia arrivarono Corrado Simioni e pochi altri che avevano accettato il patto dell’avvocato Malagugini. Fu una defezione o una esfiltrazione? Questo solo il tempo e la storia potranno dircelo, forse. Anche se guardando al curriculum del “brigatista” sarebbe facile dedurlo.
Occorre spendere qualche parola in più su questo personaggio controverso, ma sicuramente carismatico, a detta di molti BR. Lui era quello del Superclan, che aveva rapporti con Savina Longhi, collaboratrice di Manlio Brosio quando era segretario generale della NATO, passato anche per Radio Free Europe di Monaco, infine atterrato all’Hyperion, la farm dove confluivano spezzoni di terrorismo e probabilmente controllata dai servizi occidentali e non. Simioni era particolarmente a suo agio in Francia, grazie anche ai rapporti con l’Abbé Pierre, personaggio molto conosciuto nell’Esagono, sul quale tanto è stato scritto. La cosa incredibile del suo percorso fu la nomina a Cavaliere della repubblica francese da parte del presidente Chirac, nel marzo del 2001! È difficile immaginare un presidente gaullista insignire un autentico “terrorista rosso” del cavalierato, a meno che non avesse acquisito meriti speciali nella difesa delle istituzioni democratiche. Anche la sua dipartita ufficiale, avvenuta nell’ottobre 2008, fa emergere una strana coincidenza. Un altro protagonista della lotta armata, Innocente Salvoni, suo braccio destro all’Hyperion e nipote del famoso Abbè Pierre, era morto a breve distanza. Così due personaggi che tanto avrebbero potuto chiarire su quel periodo di violenza e scontro ideologico, non ci potranno raccontare più nulla.
Probabilmente Hyperion, ufficialmente una scuola di lingue con una succursale anche a Bruxelles e Londra e frequentata da intellettuali di rango, divenne «camera di compensazione di vari servizi» come si evince dagli atti della Commissione d’inchiesta parlamentare. Era composta da numerosi “fuoriusciti” da gruppi eversivi europei (ETA, RAF, IRA, ecc) e dai palestinesi del FPLP (Fronte popolare per la liberazione della Palestina di George Habash). Probabilmente fu una specie di dove nest – ma qui esprimiamo solo un’ipotesi giornalistica – una iniziativa fortemente infiltrata e controllata dai servizi di vari paesi, dove i terroristi potessero sentirsi abbastanza a loro agio da esprimersi liberamente, dando l’opportunità, a chi di dovere, di studiarne logiche, strategie, connessioni, cultura, atteggiamenti, profili politici e psicologici. L’inchiesta del pm padovano Pietro Calogero (assieme a quella del colonnello dei CC Mario Mori) è forse quella che più si avvicinò alla verità. Inchiesta finita male, per imperizia, fretta e probabilmente perché si era pericolosamente avvicinata a punti nodali, forse suo malgrado, non sappiamo. Calogero nella deposizione fatta davanti alla commissione, parlò apertamente del filone estero della sua inchiesta. Questa partiva, dopo l’uccisione di Moro, dai rapporti tra Autonomia e Potop e le BR. Non si parlava solo di comunione di intenti ideologici ma «di scambio di armi, assistenza logistica e persino azioni comuni».
Lo “schema” del rapimento Sossi
Franceschini è convinto che per capire il caso Moro servirebbe leggere bene le trame del rapimento del giudice Sossi avvenuta 4 anni prima. Lui lo avrebbe fatto col senno di poi. Anche in quel caso ci fu un processo e le BR si divisero in chi voleva liberarlo, avendo ottenuto visibilità e informazioni, e chi invece avrebbe voluto eliminarlo. Stesse divisioni poi riemerse nel rapimento del leader DC, stessi protagonisti e ruoli. Stesso canale Vaticano per la trattativa iniziale (Corrado Corghi). «Chi gestì il caso Moro, sia all’interno delle BR che negli apparati dello stato, aveva fatto tesoro dell’esperienza Sossi! lo schema del brigatista, raccolto da Giovanni Fasanella nel suo libro Che cosa sono le BR.
È ancora il giudice Sossi amareggiato, sentito dallo stesso autore per il recente Il Puzzle Moro, a metter il dito nella piaga: «C’erano due infiltrati nell’organizzazione e non riuscirono ad impedire il mio rapimento? In un contesto come quello della guerra fredda, con il mondo diviso in due blocchi, ritengo che fosse lecito utilizzare anche dei mezzi estremi per difendersi dal terrorismo. Penetrare il nemico non solo era lecito, era anche utile e necessario. Ma qual era il ruolo degli infiltrati nelle BR, quello di informatori o di agenti provocatori? Questo è il punto che va chiarito». Gli infiltrati erano Francesco Marra un ex parà esperto nell’uso delle armi, probabilmente legato all’Ufficio Affari Riservati del Viminale e Silvano Girotto un informatore del generale Dalla Chiesa. Al contrario di Moro, Sossi fu liberato. Perché? Oltre alle ovvie differenze di interesse politico, fu Franceschini che infischiandosene del dibattito interno, liberò Sossi senza avvisare il gruppo di Moretti, perché a suo parere erano stati raggiunti gli obiettivi politici utili per le BR.
I nemici interni di Moro
Nella famiglia Moro si respirava un clima pesante, soprattutto dopo il rapimento di Guido De Martino, il figlio del segretario del PSI Francesco, uno dei protagonisti del dialogo col PCI e le minacce di rapire il figlio del leader Dc, Giovanni. Il clima divenne rovente con l’approssimarsi delle regionali dell’estate 1975, quello che vide concretizzarsi il temuto “sorpasso” dei comunisti nei confronti dello scudo crociato. Una nota struggente riguardo al contesto familiare di Moro la racconta Giovanni Fasanella nel suo nuovo libro (Il Puzzle Moro). «Eleonora (la consorte di Moro, ndr) era talmente preoccupata che aveva assegnato una scorta supplementare al marito: le due figlie Anna e Maria Fida. Seguivano il papà nei convegni fuori Roma per vigilare su di lui. Una restava in sala seduta in prima fila, per controllare non gli accadesse nulla mentre parlava. L’altra rovistava nella stanza d’albergo per accertarsi che non vi fossero delle bombe». Una famiglia italiana che ancora oggi sta pagando un prezzo per quelle vicende. Tra gli alleati di governo e nel partito non mancava chi percepiva come un “pericolo” l’avvicinarsi dei comunisti al governo. E andava a lamentarsene con chi più di tutti avrebbe ben accolto quegli allarmi: i rappresentanti di Sua Maestà. Tra le carte emerse dagli archivi diplomatici inglesi riguardo il 1975/76 compaiono una serie sterminata di nomi, tra loro alcuni spiccano. Il ministro della pubblica istruzione Carlo Donat-Cattin leader di una delle correnti della sinistra DC (il figlio Marco si scoprì in seguito essere membro delle BR), si incontrò con l’ambasciatore inglese Guy Millard, quando era ministro dell’Industria (settembre 1975). Espresse giudizi duri su Moro, la sua politica era “pericolosa” e camminava su di un pendio scosceso. Anche il ministro della pubblica istruzione in quota DC, Enrico Maria Malfatti si espresse negativamente su Moro, in un incontro col rappresentante del Foreign Office a Roma (Marzo 1976). Espresse i timori che il compromesso storico avesse il solo scopo di «spaccare la DC». Malfatti inoltre considerava Berlinguer «un comunista decisamente ortodosso» e definiva la sua «conversione al pluralismo democratico come un evento puramente tattico». Anche il repubblicano Giovanni Spadolini, un altro alleato di governo e ministro, non fu tenero. Sempre nel Marzo 1976, quando Moro era presidente del Consiglio dimissionario, giudicò grave una pratica che tempo dopo divenne una prassi col “consociativismo”. Moro si consultò con Berlinguer prima di varare una serie di misure economiche. Spalleggiato dall’allora presidente dell’IRI, Spadolini riteneva fosse stato oltrepassato ogni limite: «I comunisti fanno già parte effettiva del governo». Il ministro repubblicano riteneva inoltre imminente un “golpe di sinistra”. Ed espose queste sue considerazioni all’ambasciatore Millard. Insomma agli inglesi non poteva andar meglio che Moro avesse tanti nemici tra i suoi stessi alleati.
Il clima internazionale
È utile ricordare che tra i due eventi ci fu un risultato elettorale nelle regionali del giugno 1975 che vide un evidente successo del PCI e un conseguente arretramento della DC. Il consiglio dei “Quattro” voluto dagli USA per monitorare e risolvere la situazione italiana, cui partecipavano anche Francia, Inghilterra e Germania, si riunì il mese dopo a Helsinki in margine di una conferenza europea sulla sicurezza. Dai documenti ufficiali, pubblicati dalla storica Lucrezia Cuminelli, si evince che la discussione si arenò per la diffidenza con cui alcuni paesi europei vedevano un’ingerenza così forte in un “vicino di casa”. Nel secondo appuntamento a New York in settembre, nella sede diplomatica inglese: erano presenti, fra gli altri, Henry Kissinger, passato nella squadra di Gerald Ford e il tedesco Hans-Dietrich Genscher. Il punto di vista americano tratteggiava una situazione abbastanza seria per il futuro del fianco sud della NATO che rischiava di finire sotto il controllo comunista. Non era Mosca a spingere, l’URSS non aveva alcuna «fretta di aggiudicarsi altri costosi clienti». Anzi era probabile che il Cremlino accettasse una dottrina Berzhnev in versione NATO (mano pesante sugli alleati riottosi e sovranità limitata). Il ministro degli Esteri britannico, James Callaghan, presente al meeting rese chiaro che fosse «necessario trovare qualcosa che fosse a metà strada fra i metodi per noi ripugnanti e la necessità di scoraggiare l’influenza sovietica». Nonostante il Cremlino facesse il pesce nel barile, serviva agire comunque. E gli inglesi che reputavano inutili questi vertici a quattro, decisero di fare i compiti a casa. Francesi e tedeschi frenavano e invitavano alla prudenza per ragioni opposte. Parigi temeva che una fuga di notizie su un piano “d’ingerenza” su di un paese alleato avrebbe aiutato a dismisura la sinistra francese, i tedeschi invece si sentivano legati ai destini della DC, considerandolo un partito gemello della CDU. Il problema di fondo erano gli scandali e le cattive abitudini che avevano contagiato il partito di maggioranza relativa che governava in una democrazia “bloccata” che lo rendevano fragile. Una condizione questa che Churchill aveva però considerata “utile” per l’Italia. E infatti furono gli inglesi quelli più determinati a mettere in campo azioni per risolvere il problema italiano. E lo avrebbero fatto prendendo due piccioni con una fava. Impedito ai comunisti italiani di arrivare al governo e distrutto la politica estera italiana voluta da Moro in quello che Londra considerava il cortile di casa: Mediterraneo, Medioriente e Nord Africa. Il direttorio dei “Quattro” non si decideva per le ritrosie tedesche, l’incertezza francese e la prudenza della Casa Bianca, passata nelle mani di Gerald Ford. La rete era in campo da anni, sarebbe bastato muovere al momento giusto le tante pedine in campo.
Ciò che invece è meno comprensibile dopo la caduta del muro di Berlino, è che ci si sarebbe aspettati un dibattito aperto sui periodi bui del nostro paese, una sorta di pacificazione nazionale. Invece nulla di tutto questo accadde. Perché? Partiamo da una premessa. Il muro di Berlino è sostanzialmente crollato sulla testa dell’Italia. In Germania ha permesso il ricongiungimento dei gemelli diversi. In Italia invece, tramontato il “compromesso storico”, prese piede prima il “consociativismo” poi l’effettiva convergenza politica tra PCI e sinistra democristiana. Le leggi finanziarie passavano da Botteghe Oscure prima di tornare a Palazzo Chigi. Verso la fine degli anni Ottanta era un dato di fatto. Quindi il sistema di potere in Italia si era plasmato intorno a questo binomio, che alla fine di una lunghissima gestazione avrebbe partorito il PD quasi totalmente decomunistizzato. Se il sistema non fosse imploso, segni evidenti se ne vedevano anni prima che le inchieste della procura milanese partissero: probabilmente l’Italia sarebbe uscita dalla NATO, ma qua entriamo nel campo delle ipotesi.
Proviamo ora a fare un’ipotesi giornalistica. Come nel caso degli esiti della Seconda guerra mondiale in Italia, passò in cavalleria che la guerra fredda l’avessero vinta gli americani e che avrebbero messo subito all’incasso quella cambiale. Gli Usa avevano ben presente cosa avrebbe comportato per un paese così fragile, sostanzialmente corrotto, come l’Italia, un “change” non pilotato. Questo valeva anche per l’Europa in generale. Serviva omogenizzare l’Europa al sistema USA, dopo 40 anni in cui l’influenza del pensiero strutturalista si era fatta sentire nella politica, nella società e nell’economia. Pragmaticamente Washington pensò che puntare sulle sinistre fosse utile. Primo perché la corruzione le aveva infettate in misura meno devastante, secondo perché erano le più adatte per traghettare il proprio elettorato verso sponde “democratiche” e attuare quelle politiche per aprire le economie europee al mercato. Nel caso italiano, poi, perché di fatto le sinistre controllavano stato e società; almeno era ciò che appariva. Gli USA avrebbero smobilitato enormi risorse finanziarie dal settore militare, che erano rimaste bloccate durante il confronto bipolare, per lanciare un grande progetto economico: la globalizzazione dei mercati (una novità per noi europei). Un progetto che avrebbe dovuto abbattere le frontiere dell’economia, con la nascita di una middle class globale con nuove esigenze. I paesi sviluppati avrebbero dovuto abbandonare le produzioni a basso valore aggiunto che sarebbero emigrate verso i paesi in via di sviluppo, detta per sommi capi. Sappiamo tutti come sia andata a finire. Un travaso di competenze che in Europa non ha funzionato e anche negli USA ha portato non pochi problemi. Il sistema più semplice per attuare questo piano era, tra le altre cose, “risanare” i paesi drogati dalla guerra fredda. In Italia, probabilmente, il patto fu fatto con i vertici del PCI, in cambio fu promesso di buttare i file “rapporti Roma-Mosca” più imbarazzanti nel cestino e quindi ritardare la resa dei conti storica, tanto necessaria per un paese senza identità. “Mani Pulite” aveva ridisegnato, ma non completamente, il campo di gioco politico italiano. L’arrivo non previsto di Silvio Berlusconi – che sorprese gli americani in primis – scombinò il progetto di “soft change”. Non si era calcolato bene il marcato sentimento anti-comunista di molti italiani che avevano votato DC “turandosi il naso”, come disse Indro Montanelli.
Quindi gran parte dei protagonisti dei giochi sporchi della guerra fredda passarono nella seconda repubblica: quelli che avevano “aiutato” fecero carriera, infilandosi un po’ dappertutto, ma impedendo di fatto l’emersione di un dibattito nazionale sul passato, sulle stragi, sul “non dicibile”. In questo modo la fragilità italiana non ha fatto che perpetuarsi e siamo rimasti un paese politicamente “immaturo”. Il resto è cronaca, fino ai risultati delle politiche del marzo 2018, che potrebbero diventare uno spartiacque. Forse.