Alessandra Pratesi
Visto al Teatro Argentina di Roma

Dostoevskij kitsch

Il regista russo Konstantin Bogomolov, arruolato dall'Ert, confeziona un "Delitto e castigo" in stile Grande fratello tv. Un Dostoevskij attualizzato per capire se una redenzione è ancora possibile

È un’umanità borderline quella tratteggiata in Delitto e castigo. La miseria, materiale e morale, è la vera protagonista, causa ed effetto delle azioni di Raskol’nikov e dei tipi umani che incontra lungo la sua personalissima via crucis dalla disperazione al crimine, dal pentimento alla redenzione. Studente a Pietroburgo, sola speranza di ascesa sociale per la famiglia di umili origini, in città fatica a mantenersi e non raggiunge l’agognato miglioramento. Intanto, la vecchia usuraia che gli fa credito pensa a dissanguare i vivi per salvare, al momento giusto, la propria anima avida. In questo viaggio della coscienza vincono prima il gusto dell’ingiusto e la convinzione che una cattiva azione possa essere giustificata dalla prospettiva di mille buone, poi il bisogno di purificarsi del sangue versato: la voce interiore del giovane in conflitto con se stesso è l’unica a trovare spazio nel romanzo. È probabile che, se avessero domandato all’autore di scriverne una pièce teatrale, Fëdor Dostoevskij avrebbe ideato un monologo in cui flashback intermittenti e apostrofe al pubblico avrebbero rappresentato la trama e l’ordito del testo, fino a raggiungere un livello di straniamento simile alla sospensione onirica di Cidrolin e del Duca d’Auge in Fiori blu di Queneau.

Non dello stesso parere è Konstantin Bogomolov, il regista che firma la produzione voluta da Emilia Romagna Teatro Fondazione nel 2017 e in scena fino al 15 aprile al Teatro Argentina di Roma per la stagione 2017-2018. Mette in scena il testo originale, eccezion fatta per una non del tutto innocua operazione di montaggio. Raskol’nikov (Leonardo Lidi) è un immigrato africano, la madre (Anna Amadori) e la sorella Dunya (Margherita Laterza) fanno il loro ingresso sul palcoscenico dalla platea a ritmo di Boooomba (tormentone dei villaggi estivi che conferisce ulteriore esotismo al pastiche). Assume i toni del pulp, del rap e del pop. L’ambientazione è quella kitsch del Grande fratello: un salotto, quattro televisori, una telecamera e dieci personaggi che si confessano e si raccontano. Inizia la Signora Raskolnikova, declamando una lettera al figlio, proseguono Marmeladov (Enzo Vetrano) e Porfiriy Petrovich (Paolo Musio). La miseria e il degrado sono davvero gli stessi dell’originale, persino più crudeli perché avvicinati a sensibilità ed esperienza quotidiana del pubblico, in una grottesca parata di casi clinici ed emarginati della globalizzata, liberal e progressista civiltà odierna: l’idiota, l’omosessuale, l’alcolizzato, la prostituita, il feticista, il nero. Il trionfo del politically incorrect.

Del dissidio interiore del protagonista, però, non è rimasto nulla: uccide quasi per capriccio e si costituisce quasi meccanicamente su sollecitazione di Sonya (Diana Höbel). I riferimenti gratuiti e scoordinati alla sessualità, malata o mercenaria, accentuano l’effetto straniante. Così come il livello della recitazione volutamente medio-basso e monocorde, nella dizione e nell’enfasi come nei movimenti, per un’andata e ritorno dal cinismo al nichilismo.

Al di là di ogni caratterizzazione in senso storico e religioso, che pure marcano profondamente il romanzo e l’autore, Dostoevskij ragiona su di una palette di sentimenti sempreverdi: è il profondo e fiducioso riconoscimento della dignità dell’uomo, nella convinzione che anche nel trasfigurante abbrutimento kafkiano l’elevazione spirituale è sempre attuabile. Bogomolov percorre la sua strada di riflessione e denuncia in maniera sottile. È provocatorio e irriverente (un Árpád Schilling o un Romeo Castellucci, però, hanno osato di più). È narrativo pur essendo frammentario. Pur senza raccontare una storia o un percorso psicologico. Mostra, ma non giudica.

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