Una storia pasquale
L’Isola del tesoro
Un cane ferito, un incontro, la processione col Cristo deposto, il profumo del pane di Pasqua, le memorie di infanzia racchiuse in un libro che faceva pensare alla vita come a una promessa... Un racconto inedito di Adriano Napoli
Il vecchio stava in pena per il cane. Un sospetto di gastroenterite. Innocua per un uomo, fatale all’animale. Mi fermai a guardarli per curiosità dalla strada di montagna che proprio in quel punto spariva tra i campi, o forse per una nostalgia che covava in me chissà da quanto. «Tanto piacere, Pasquale», mi fece il vecchio chiudendo la porta della baracca e dandomi le spalle trascinandosi dietro il cane. Ma dalle feritoie dei suoi anni e dal resto dello sguardo compresi ogni cosa. Così gli diedi una mano e li portai nella mia macchina, il vecchio e il cane, dal veterinario nel paese vicino. Ci vollero due ore per scendere da quei tratturi e per la visita. Il cane era grave, ma forse si salvava, con un poco di cura, con qualche farmaco. Il veterinario era una donna, e aveva lasciato aperto sulla scrivania un libro di Paulo Coelho. Gli diedi una sbirciata a pagina 81 mentre il vecchio gemeva su una panca e il cane rantolava inerte come un fagotto appoggiato lì per caso.
Uscimmo che fuori in paese portavano la processione col Cristo già deposto dalla croce e ricoperto di piaghe e che per un attimo parve guardarci consolato. Che forse la Morte annulla ogni cosa nella sua agonia, eccetto una fedeltà. Il cane lo riportammo nella sua cuccia e il vecchio che voleva disobbligarsi mi chiese di entrare in casa. Varcammo la soglia di un portone nascosto tra pile di pneumatici, bidoni di catrame e ferraglia e il vecchio prima di entrare raccolse con la mano in una specie di abbraccio semicircolare tutta l’aria, i fabbricati e le terre che ci stavano intorno e disse che era un po’ tutto roba sua. (“Di Mazzarò” pensai io rovistando lì per lì tra i miei ricordi di scuola). Entrammo dentro e c’era la moglie che preparava l’impasto per il pane di Pasqua. Poco dopo vennero pure i figli, le cognate, i nipoti e le nipoti. Così conobbi tutta la famiglia di Pasquale. E si accese il focolare e ci mettemmo a parlare. Io per non stare in difetto ero tornato alla macchina a prendere una colomba confezionata che avevo comprato il giorno prima in salumeria. Ne tagliammo qualche fetta e il vecchio disse che c’era anche il vino nuovo da provare. Bevemmo, mangiammo la colomba e qualche altro dolce di farina che la moglie aveva improvvisato con il resto dell’impasto servito per il pane.
Ogni tanto con i bambini più piccoli uscivamo a vedere il cane. Che dormiva e pareva tranquillo o già morto. La nipote più giovane imparava l’inglese con un maestro che non si faceva pagare per quanto era promettente. Questo me lo disse il padre, che faceva il guardaboschi e aveva appena smontato dal turno alla Comunità montana. Di questa bambina ne faremo un deputato, la manderemo alla Camera, mi ripeteva con uno sguardo goloso schioccando la lingua mentre assaporava il suo vino. La nipote più grande aveva l’esame delle medie, invece, e stava preparando la tesina. E mentre le parlavo di qualche idea per fare bella figura con la commissione, imbandirono la tavola per la cena, e venne altra gente e si fermarono e anch’io mi fermai, invitato, a quella tavola dove c’era una sedia anche per l’estraneo. Il vecchio dopo mi volle accompagnare alla porta che adesso era notte e lasciandomi la buonasera mi promise di rivederci l’indomani per darmi un pezzo del pane di Pasqua appena sfornato.
Ne fui riscaldato e partii per casa contento di dire a mia madre svegliandola dal sonno che l’indomani avremmo mangiato il pane della Pasqua cotto nel forno a legna dei miei amici che avevo conosciuto poco prima in quel paese. Ma nel tragitto per l’eccitazione mi fermai più volte ad annusare l’aria prelibata di quella vigilia, e per godermi il sapore di tutte le promesse inaspettate che quel giorno mi aveva regalato e che ancora mi avrebbero atteso per l’indomani. Persino il buio, il cielo brumoso tra le montagne e l’acqua di una povera fontana che avevo intravisto per caso in una curva dopo il paese mi saziarono e mi diedero un capogiro che era bello da portarmi addosso.
E così l’indomani ritornai, colmo di doni per tutti i miei nuovi amici. Il cane nella cuccia sbatté la coda nel vedermi e non si mosse. Il vecchio Pasquale invece mi fece conoscere un altro figlio venuto per le feste dalla Germania e ancora altri nipoti. C’era anche la bimba dell’inglese e le misi in mano un libro che le avevo portato e che era stato la mia vacanza di bambino quando leggendolo alla sua stessa età mi aveva fatto pensare alla vita come a un’Isola del Tesoro da rintracciare in tutti gli infiniti oceani che mi attendevano appena fuori della mia stanzetta. All’altra che preparava l’esame diedi invece una busta gialla con dentro un malloppo di carte a cui avevo lavorato per tutta la notte sapendo di tornare. Lei subito mi ringraziò e mise via e scomparve sotto un arco dove l’aspettava la voce impaziente di un ragazzo. Mi fece piacere vedendola andare, e pensai che quando l’avesse aperta più tardi o dopo la festa avrebbe trovato nella busta schemi e riassunti per la tesina delle medie e altro materiale che le sarebbe bastato fino all’università.
In fondo, nascosto tra gli altri fogli, avevo lasciato un biglietto da visita con il mio nome e uno dei miei recapiti provvisori che nel mio lavoro di insegnante cambiavo insieme con la scuola e il paese di anno in anno. E sul rovescio del biglietto, scritta a penna una frase di ringraziamento a lei e alla sua famiglia che mi avevano accolto per quel giorno e dato il tepore di un forno dove assaggiare il pane come se fossi tornato indietro nell’infanzia. Così il resto del tempo mi misi a raccontare di me al figlio venuto dalla Germania che faceva il fornaio e aiutava il vecchio con le forme di pane. E dissi tutto di me, anche il cordoglio di ripartire fra meno di ventiquattro ore lasciando ancora una volta mia madre sola con la tavola da sparecchiare per raggiungere il posto dove lavoravo, oltre quelle belle montagne dove stavo ora e che ci voleva un giorno di chilometri di autostrada per arrivarci da straniero, senza un saluto. E che durava così da anni.
Alla fine venne il momento di andarmene e salutai tutti quanti con fatica perché il pane che mi avevano dato per me e per mia madre era di una quantità generosa e a malapena riuscivo a tenermelo stretto nell’involto tiepido e odoroso con entrambe le mani. E invece avrei voluto stringerli uno per uno e chiamarli per nome come si salutano gli amici prima di dirgli arrivederci. Ma non lo feci. Le montagne intorno mi guardavano severe e nell’aria familiare di quel paese già sentivo l’impazienza del congedo. Per raggiungere la macchina nella piazza il vecchio mi accompagnò con l’ombrello perché all’improvviso pioveva. Di Marzo è sempre così. Ci salutammo ancora una volta e partii sfiorando nella direzione contraria alla mia gli sguardi sonnacchiosi di altra gente del paese che si accostava senza fretta con i cappotti che a stento coprivano il pigiama alle poche bancarelle dei dolciumi ancora aperte. Le campane della Chiesa Matrice mi ricordarono sfumando nella foschia della strada montana che era ancora Pasqua.
Al paese ci tornai mesi più tardi che adesso era estate. E nonostante la calura anche quella volta pioveva. Trovai subito con un’ostinazione da cieco la casa di Pasquale in uno di quei vicoli e bussai. Da quel giorno di Pasqua non avevo saputo più niente. Forse il mio nome sul biglietto da visita si era perso, ma l’ombrello che mi aveva prestato il vecchio lo portavo con me e per questo ero venuto a restituirlo. Nell’attesa che mi aprissero sentii dalla cuccia il ringhio di un cane. Era tornato in forze e mi interpellava torvo con l’impassibilità di un usciere che compie il suo dovere mettendo sull’avviso lo sconosciuto. Poco dopo venne ad aprirmi la moglie di Pasquale e mi guardò pressappoco come il cane. Feci per darle l’ombrello e lei mi indicò il pavimento bagnato e la cucina vuota. Il marito, mi disse, era ancora nei campi e gli altri chissà dove in qualche posto da cui ancora non rientravano. Mentre con parole di cerimonia ancora mi ringraziava per la visita e la sorpresa vidi che accostava già la porta dopo aver lanciato un biscotto stantio verso la cuccia e mi guardai da solo nel tramonto con lo spessore di un’ombra sui muri di quelle case anonime e senza più nemmeno la pioggia ad accompagnarmi nel ritorno.
A casa mia madre prima di dormire mi domandò che cosa volevo mangiare per cena ma io tirai dritto senza rispondere chiudendomi nella mia stanzetta tra i miei libri di adolescente e passai il resto del mio tempo a cercare un’altra isola di carta da riempire con i sogni e le allucinazioni di altri viaggi diversi da quelli che di solito faccio io, in questa vita che mi tocca, sempre e indifferentemente uguale.
(Nell’immagine vicino al titolo: Giorgio De Chirico, “La partenza del navigatore” particolare)