La voce del poeta: Loredana Bogliun
La poesia a Dignano
«La nascita di un poeta dialettale è sinonimo di vitalità linguistica e di pregnanza culturale». Lo afferma a buon diritto la poetessa istriana che affida i suoi silenzi interiori alle parole dell’antico idioma istroromanzo in via d'estinzione
«Tra queste due pareti del crepaccio spalancatosi in Istria verso la metà del Novecento si insinua il vomere della poesia di Bogliun, che nella sua essenzialità di pietra scheggiata e d’acqua sorgiva, con la sua estrema economia di mezzi risolta in solennità lieve, di profonda consapevolezza culturale e di sapienza antica delle cose umane assorbita in un perpetuo stupore infantile, ha echi irresistibilmente biblici» osserva Mauro Sambi. Loredana Bogliun scrive nel dialetto dignanese e ha pubblicato varie raccolte – apprezzate da autori e critici d’eccezione come Loi, Zanzotto e Brevini –, fra cui Graspi/Grappoli (2013) e sfisse/fessure spiragli (64 pagine, 15 euro), edita nel 2016 dalle Edizioni Cofine.
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Ho pubblicato sfisse / fessure spiragli nel 2016. Il libro ha avuto diverse recensioni e presentazioni. Si tratta del libro della mia maturità artistica dove esprimo il senso più profondo del mio approccio alla poesia. Questa pubblicazione ha assunto pure il ruolo di progetto culturale perché cofinanziato dal Comune di Dignano d’Istria e promosso dall’Ecomuseum, associazione culturale impegnata nella promozione e valorizzazione del patrimonio materiale e immateriale della Dignano antica. Al di là del valore artistico dell’opera è stata pure rilevata l’importanza della pubblicazione di un libro di poesia scritto nell’antico dialetto dignanese, idioma istroromanzo in fase di estinzione.
Ritiene che la poesia sia uno strumento utile a salvaguardare il dialetto di certe minoranze?
La poesia è sempre utile per qualcosa e per qualcuno. Nel mio caso non si tratta di salvaguardare ma di salvare la memoria storica di un dialetto che sta scomparendo. Oggi, a Dignano, gli italiani parlano l’istroveneto, koinè regionale e dialetto d’insediamento storico più recente rispetto all’arcaico idioma istroromanzo. Da noi l’esodo degli italiani del secondo dopoguerra ha letteralmente svuotato le nostre contrade e non c’è poesia che tenga quando vengono a mancare i parlanti e i fruitori della lingua d’uso. Detto questo, penso che per certe situazioni di minoranza più fortunate della nostra, ci possano essere riscontri positivi per la salvaguardia del dialetto. La nascita di un poeta dialettale è sinonimo di vitalità linguistica e di pregnanza culturale. La poesia contribuisce a forgiare e temprare i valori più veri della vita comunitaria. Una comunità etno-linguistica anche ristretta può ritenersi fortunata se riesce a esprimere almeno una voce poetica qualificante.
Cosa pensa della diffusione della poesia in rete?
Il mio atteggiamento è positivo. È un bene se la poesia diventa più accessibile. Un poeta può essere sempre contento quando viene letto da lettori anonimi e sconosciuti. Il problema più grosso, semmai, è il riconoscimento della vera poesia. Compaiono pure autori di livello scadente. Va capita questa loro esigenza di scrivere e l’opportunità che hanno di concretizzarla.
Quali sono i suoi autori di riferimento?
Non ho veri e propri autori di riferimento. Ogniqualvolta mi avvicino con l’anima alle poesie di qualcuno perdo l’input per scrivere i miei versi. Sono molto ricettiva a livello poetico e, quando trovo poesie che potrei (o vorrei) aver scritto io, entro in una fase d’immedesimazione e mi fermo. Spesso, spessissimo mi sembra che sia già stato detto tutto, ma poi so che ognuno di noi è tenuto a esprimere sé stesso e a cercare il suo/nostro luogo di verità. Nel mio piccolo trovo che vale la pena esprimersi in poesia, sento profondamente il potere evocativo della parola e quel suo modo straordinario di arrivare dal nostro silenzio interiore. In tal senso ho sempre ammirato Giacomo Leopardi. Certo ho avuto la fortuna di incontrare e conoscere poeti che sono diventati ombre silenziose e gratificanti come Biagio Marin, Franco Loi, Andrea Zanzotto. Importante la produzione poetica in dialetto rovignese (altro dialetto istroromanzo dell’Istria sudoccidentale) di Giusto Curto e Ligio Zanini.
Cosa sta preparando attualmente?
Ah… un qualcosa che avevo nel cassetto da tempo, ma doveva passare quasi una vita perché io ritrovassi il coraggio di accostarmi ai miei testi inediti giovanili. Mi ha stimolato beneficamente Mauro Sambi, poeta di Pola e autore della postfazione di sfisse, che vorrebbe occuparsi dei miei inediti da un punto di vista critico. Ho una specie di debito di riconoscenza nei confronti di queste poesie. Vanno riprese perché negli anni ho maturato un preciso sistema grafico per la mia scrittura dialettale e poi – altro tasto dolente – va rivista la traduzione. Nel tempo sono riuscita a superare lo scoglio della traduzione letterale, impossibile da proporre per qualsiasi dialetto.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Quando guardo il mondo vado incontro alla vita. Incontro le persone. Già da piccola mi affascinavano gli anziani: quell’alone di vita vissuta che sta dentro a una semplice movenza, alla semplicità del dire le cose con saggezza, quel modo di essere che viene svelato solo se ti addentri o se lo sperimenti. Sapevo che il ciclo della vita mi avrebbe portato a conoscere e cercare lontano e così, singolarmente, mi è successo più volte di scrivere poesie dedicate ai vecchi che m’ispirano un qualcosa d’inesprimibile legato alla fine della vita terrena. Immancabili i miei nonni materni. Quelli paterni li ho persi quando avevo sette anni e sono entrati nella sfera del mio patrimonio culturale personale legato alla realtà dignanese. Questa poesia parla di mia nonna Francesca alla quale mi lega il ricordo indelebile della prima poesia scritta a otto anni. Lei si fece complice e scrivemmo una poesia in rima che parlava di un uccellino. Scrivemmo insieme quell’unica poesia, e fu come se mia nonna mi passasse un qualcosa che si potrebbe chiamare coraggio, fiducia, vai, la poesia è bella!
***
I strapassi de me nona
Ingroumada cumo ouna strassa
la veita no ghe pia∫i massa
Carno feiapa la se strasseina dreio
ch’a fa oun groumasso veivo
e quil ch’a se poi intendi
de la so preima ura e de i so padimenti
In tale so man
in douti i modi iò passà
quii feili ch’a iò ∫ontà
al curaio e la pagoura
– par al di∫nà la iera sempro sigoura
Fimena de leissie grande
vula ∫ì ancui quil giavo de le pulisseie,
la muiir ch’a par distreigà
no la lo lassava gnanca magnà:
col veiva l’oulteima scou∫ira in buca
al piato ∫à no iera pioun ∫uta
cugòn
traversa nita
feioi relevadi
e astoussia iusta
da no fa savì
quil ch’a tei iè
e quil ch’a tei soin
ancui la favela nama
par no fa vidi al grupo in gula
iè ingiutei curendo veia
ma gila sango ch’a bato
sparansa ch’a no caio
la iò ancura l’ocio ∫gaio
I patimenti di mia nonna Rannicchiata come un cencio / la vita non le piace molto / Carne floscia si trascina appresso / che ne fa un ammasso vivo / e quello che si può capire / della sua prima ora e della sua sofferenza // Tra le sue mani / sono passati in mille modi / quei fili che hanno fortificato / il coraggio e la paura / – per la cena era sempre sicura // Femmina di bucati grandi / dov’è oggi quel diavolo delle pulizie, / la moglie che per riordinare / non lo lasciava neanche finire di mangiare: / quando aveva l’ultimo cucchiaio in bocca / il piatto da sotto era già sparito // chignon / grembiule pulito / figli tirati su / e astuzia giusta / per non svelare / quello che hai / e quello che sei // oggi parla appena // per non far vedere il groppo in gola / ho inghiottito correndo via / ma lei sangue che batte / speranza che non molla / ha ancora l’occhio vigile
Loredana Bogliun
(Si ringrazia per la collaborazione Maurizio Casagrande)