Visto a Palazzo Serra di Cassano di Napoli
Il sogno di Napoli
Riccardo De Luca e Annalisa Renzulli hanno costruito uno spettacolo su Eleonora Pimentel Fonseca e sulla vitale contraddizione di Napoli, fatta di eccessi d'amore e morte. Contemporaneamente
Eleonora Pimentel Fonseca, l’eroina della Rivoluzione partenopea del 1799, non era napoletana. Ma in fondo non era nemmeno del tutto portoghese, come lo era invece la sua intera famiglia (proveniente da Beja, nell’Alentejo). Era infatti nata a Roma. Ma era poi venuta a Napoli all’età di otto anni. Quindi era in qualche modo di fatto napoletana. Ora, a chi spetterebbe, a rigor di logica, di interpretare il suo ruolo in una pièce teatrale tenuta a Napoli? – e per di più nella Sala degli Specchi del Palazzo Serra di Cassano, dov’è vissuta la famiglia nobiliare che lamenta un’altra delle principali vittime della feroce repressione borbonica, Gennaro Serra. A chi spetterebbe di più questo ruolo? Ad un’attrice portoghese, o ad un’attrice napoletana? Sembra impossibile dare una risposta. Per cui non resta altro che contemplare un vero e proprio mistero.
Ed è questo mistero quello che a me è sembrato di contemplare assistendo allo spettacolo del quale sto parlando. Spettacolo (allestito dal regista e attore Riccardo De Luca), e che ha visto in scena attori tutti bravi, appassionati ed ispirati. Ma ha visto al centro di ogni cosa l’interpretazione di Annalisa Renzulli nel ruolo di Eleonora. Un’interpretazione talmente azzeccata nella sua suggestività e forza, da lasciare davvero senza parole. Nel senso che occorrerebbero davvero fiumi di aggettivi per descriverla. Ma io non intendo indulgere ad alcun barocchismo nella descrizione dell’interpretazione di Annalisa Renzulli, e quindi mi atterrò ad un solo elemento, e cioè quello del mistero.
Mistero dell’identità, senz’altro! Identità personale, psicologica, spirituale, storica e geografica. Il teatro che indubbiamente più colpisce e costruisce è senz’altro quello tragico. E questo spettacolo dedicato ad Eleonora Pimentel Fonseca lo era decisamente. Di conseguenza lo spettatore veniva trasportato nella scena con una forza (catartica) talmente straordinaria, da dover necessariamente interrogarsi su chi fosse veramente quell’Annalisa che stava recitando Eleonora. Qual era insomma la sua identità tra tutte quelle appena elencate? Ebbene, era Eleonora Pimentel Fonseca senza il minimo dubbio. Chi ha sempre ammirato, adorato, venerato e amato questa donna, insomma, se l’è ritrovata davanti davvero in carne ed ossa. E questo è già del tutto sufficiente a mettere i brividi.
Ma quale Eleonora era questa? La portoghese o la napoletana? Ecco il mistero dei misteri. Che per fortuna esso è rimasto insoluto per tutto lo spettacolo. E così resterà anche dopo di esso. Il regista ha voluto mettere in bocca ad Annalisa Renzulli anche qualche parola di portoghese. Amabili e dolcissimi soprattutto quei «Papae» e «Mamae», con i quali lei si rivolgeva ai genitori. Ma ce ne sono state anche altre, di parole in portoghese. Luci abbaglianti che si accendevano e subito si spegnevano, però. Il resto dell’eloquio era infatti in napoletano. Uno splendido, sontuoso, ed insieme affascinantemente elementare napoletano del Settecento. Quello che io ricordo di aver sentito parlare da bambino ai contadini delle campagne di Acerra (nell’agro una volta detto Campania Felix), dove sono cresciuto prima di stabilirmi a Napoli. Il napoletano pieno ancora delle assonanze di Basile. Il napoletano pieno del fascino fatato delle favole con le quali una volta le nostre nonne cullavano i nostri sogni. I sogni per mezzo dei quali noi da bambini noi scivolavamo poco a poco nella puntuale e grata oscurità notturna, rimbombante di un profondo silenzio cosmico pieno di mute voci di dèi. Un silenzio pacificante che di notte ormai ahimè non scende più su questa bella quanto disgraziata terra.
Annalisa Renzulli è stata dunque un’Eleonora Pimentel Fonseca profondamente napoletana in questo suo eloquio. E lo è stata anche nel suo fervente innamoramento di straniera per le così evanescenti speranze napoletane. Speranze mai sopite ma mai realizzate. E che allora, in quelle terribili circostanze, trovarono il loro forse più rovinoso naufragio. Eppure questa Eleonora resta portoghese. Per quei frammenti della lingua madre che emergono qua e là. Ma anche per la nobiltà pura della passione, per la generosità del donarsi anima e corpo ad una causa che poteva esserle anche estranea e indifferente – specie nelle sue fasi più compromettenti e rischiose. Era una nobile di sangue, Eleonora Pimentel Fonseca. E lo è stata senz’altro anche Annalisa Renzulli nell’interpretarla. Ma il feroce e traumatico confronto con la nobiltà napoletana più diffusa allora ed oggi (a parte i Serra, la Sanfelice e pochi altri), lascia emergere in Eleonora quella portoghese come prototipo di una nobiltà più dell’anima (o meglio dello spirito, gnosticamente parlando) che non invece del sangue e (soprattutto) del volgarissimo censo. Se Eleonora non avesse avuto dentro questo fuoco così puro e ardente, forse non sarebbe stata quella che fu e non avrebbe fatto quello che fece. E l’interprete qui decisamente la segue su questa scia in maniera impressionantemente convincente.
Conosco bene i portoghesi. Vivo in quel paese anche se non ho mai abbandonato Napoli né mai l’abbandonerò. Ho osservato il loro straordinario rigore nei comportamenti, la loro delicata gentilezza, il loro profondo raccolto ed autentico fervore religioso nel corso delle funzioni religiose. Dunque era il sangue del padre e della madre quello che Eleonora esprimeva nel suo continuo confrontarsi con la sguaiatezza volgare e lazzara di nobili e plebei napoletani, nel suo coltivare le magnifiche, altissime e generosissime speranze poi sempre puntualmente naufragate nella realtà immutabile di questa terra («Adda ì accussì!», dice lei pochi attimi prima di essere impiccata a Piazza Mercato senza mutande). E infine nello scontrarsi con la ferocia puntigliosa e gretta, ma in fondo dopotutto soprattutto indifferente e viziosa, dei regnanti ormai ristabiliti su trono, e decisi alla repressione più sanguinosa ed umiliante possibile.
Era il sangue della sua terra e dei suoi padri quello che parlava nella sua passione eroica (il sangue di Viriato, il sangue di Fernando de Magalhães, e dell’Infante Dom Manuel, «O Desejado»). Eppure, eppure, questo sangue si era trasfuso totalmente, e con immenso amore ardente e generoso, nell’identità (personale, psicologica, spirituale, storica e geografica) della napoletanità. La napoletanità più pura, integra, celeste, nobile nel vero senso della parola. Ma che reca pur sempre al suo fondo la sostanza demoniaca del «Gran Lazzaro» – identità napoletana in negativo nella sua forma più piena ed integrale.
Ecco, noi Napoletani dobbiamo tutto questo ad Eleonora Pimentel Fonseca. E lo dobbiamo anche ad Annalisa Renzulli, che l’ha impersonata così carnalmente. Dobbiamo a questa Eleonora gratitudine eterna e venerazione perpetua. Ma soprattutto, come ha detto l’interprete a conclusione della pièce, dobbiamo a lei l’esempio di un sogno pieno di bruciante amore (viscerale e spirituale) per una terra che merita senz’altro molto più della storia e della quotidianità che ha avuto fino ad oggi.