Su "L’eleganza muscolo-scheletrica”
Paradossi di vita
Davide Marangi prende di petto l'esistenza cercando, con i suoi aforismi, di svelare, tramite paradosso e ironia, il midollo di vacuità e insensatezza della vita, nascosto dentro lo scheletro di apparente razionalismo
Innanzitutto un’avvertenza: se avete acquistato L’eleganza muscolo-scheletrica di Davide Marangi (Raffelli Editore, Rimini 2017, postfazione di Alberto Fraccacreta, pp. 127, euro 12) perché cercavate un rapido compendio di anatomia in vista dell’esame, avete preso un granchio. Non troverete al suo interno alcuna barbosa definizione da glossario. L’autore, nato a Nardò nel 1990, ha raccolto, infatti, sotto questa intestazione diversi tipi di scritture, come esplicitato nel sottotitolo Racconti, aforismi e dialoghi brevi, la cui ispirazione fondamentale è di natura filosofica. Egli si definisce un «estatico esistenzialista annoiato», e io aggiungerei anche “scanzonato”, dopo aver letto, ad esempio, il seguente aforisma: «Ricercare l’esistenza tra le impostazioni del computer». La leggerezza con cui egli si muove tra tematiche tutt’altro che vaporose, è uno degli innegabili pregi di questo libello che già dalle dimensioni del volume evita ogni pesantezza.
Centrale, nella riflessione di Marangi, è la distinzione tra «essere» ed «esistere», ossia tra l’abbandonarsi «al flusso degli eventi che procedono in successione inerte» e lasciare, invece, «che la vita volga verso la ricerca di una verità profonda, salvifica per l’uomo», stadio quest’ultimo raggiungibile solo a patto di una profonda consapevolezza di sé. L’autore brama di uscire dal limbo dell’«assenteismo», in cui si può rischiare di trascorrere anche la vita intera, e implora: «Datemi il tempo di esistere». L’aforisma è la forma letteraria che egli predilige per scandagliare la realtà, perché gli permette di svelarne per rapidi flash, tramite il ricorso al paradosso e all’ironia, il midollo di vacuità e insensatezza nascosto dentro lo scheletro di apparente razionalismo. I giudizi sulla società odierna sono spesso pungenti: «Oggi la gente si accontenta delle grandi cose, la mediocrità è il prezzo dell’evoluzione». L’osservazione cosciente della vita può trovare un facile approdo nel pessimismo: «disgrazia, condicio sine qua non»; «Non c’è attimo in cui non rimpianga quello precedente soltanto per la noia di affermarmi, o semplicemente di essere, all’interno di una società, la stessa società». Ma l’autore ci avverte affabilmente nel Prologo che la sua non vuole essere «un’opera di scoraggiamento» e ci rassicura sul proposito che «una speranza maggiore guiderà, se non questo, almeno il prossimo libro».
Di fronte allo sguardo dell’osservatore consapevole il mondo si spoglia della sua veste razionale. Emblema dello scardinamento della logica è il paradosso, di cui lo scrittore è avido: «La fine mi precede»; «Nascere d’infarto»; «I vuoti mi farciscono», «Una conversazione è feconda quando a fecondarla è il silenzio». Nel vortice degli innumerevoli cortocircuiti, Marangi riesce a scorgere nell’apparato muscolo-scheletrico «una delle poche verità tangibili che riesce a sostenerci». Ed è perciò da lì che egli decide di partire in cammino verso l’esistenza, trovando nel corpo umano una chiave d’interrogazione e interpretazione del reale: «In quest’epoca la parola precede la riflessione, si parla per riflesso involontario»; «Il verbo è l’ossatura del discorso, dunque mi sembra di capire che oggi esistono solo i tessuti molli». La scrittura di Marangi fa largo impiego della terminologia scientifica della fisiologia e dell’anatomia, che l’autore si diverte a sciorinare al fine di chiarire il concetto chiave dell’«eleganza muscolo-scheletrica». Il funzionamento del corpo umano, egli sostiene, si poggia su un principio poetico: «Cos’è il movimento del nostro corpo? È ritmo. Cos’è il ritmo? È poesia. La poesia dunque è il movimento della nostra vita». L’anatomia diventa allora foriera di metafore: «tu il muscolo, io il tendine. L’amore è la nostra placca neuro-motrice».
Tale prospettiva sembra sovvertire quella dei tradizionali binomi concettuali mente-corpo, materia-spirito, trascendenza-immanenza, avvicinando vorticosamente gli estremi. Stigma del libro diviene così l’oscillazione tra alto e basso (i versi di Montale «La vita oscilla / tra il sublime e l’immondo» sono citati in epigrafe alla terza sezione), in cui è ravvisabile anche il proposito dell’autore di smorzare i toni, di non prendersi mai troppo sul serio: in virtù di ciò a una riflessione profonda sull’amore, sviluppata attorno ad alcuni versi della lirica Scaffolding di Seamus Heaney, fa seguito con volontaria dissonanza l’elogio della parmigiana. La finalità comica non è affatto secondaria nell’opera. Leggendo queste pagine si ride spesso e si apprezza anche lo stile con cui è raggiunto l’effetto. Oltre all’allitterazione («Tra l’assurdo e il trapasso viviamo in crisi con la burocrazia»), soprattutto la paronomasia è impiegata in questa direzione: «Cogito ergo coito»; «Non sono mai stato bravo a prole».
Di tanto in tanto Marangi fuoriesce dalla pista della sua forma preferita, allentando un poco il ritmo accelerato dell’aforisma con delle pause che allietano piacevolmente la lettura: le righe si raddensano quindi in brevi narrazioni che assumono talvolta la sfumatura dell’apologo o del frammento lirico, più spesso quella del circolo vizioso, che egli eredita dalla grande tradizione del nonsense che va da Edward Lear a Daniil Charms. Si incontrano inoltre alcune brevi poesie che fanno il verso all’ultimo Montale (la «Preghiera di un moralista» che chiude la terza sezione, ad esempio, è ispirata al componimento Notizie & Consigli delle Poesie disperse). Forma dialogica assumono invece le squilibrate elucubrazioni di Iosefis Pazzepov, un «ammesso» al mondo «per sbaglio», affetto da intense crisi esistenzialiste sin dalla tenera età, che costituiscono l’ultima sezione del libro, Taccuino di un non nato: una sorta di micro-romanzo in nove capitoletti, contraddistinti da divertenti titoli narrativi di stampo eroicomico.
La teoria centrale nel libro dell’osmosi tra corpo e mente, per cui anche l’acne di Pazzepov è «di natura filosofico esistenzialistica», trova la più concreta esplicazione nell’ottavo capitoletto, in cui il Dottor Russò sottopone il paziente a una terapia di «omeostasi psichica»: «Quando ha troppa fame, legga De Sade (sicuramente le passerà), quando è troppo felice legga Emil Cioran, quando è a digiuno prolungato legga Proust o guardi i quadri di Cezanne». Non manca mai l’ironia: Pazzepov torna dal dottore per dirgli che dopo essere guarito dall’acne, gli è sorto un altro «problemino»: «Ho letto troppo Cioran. […] Adesso soffro di dispnea parossistica notturna, rimango insonne, ho le nevrosi, e devo fare sempre la pipì». E la storia si va a impantanare nel solito circolo vizioso caro allo scrittore salentino.
Non cinico, né nichilista è l’eroe Pazzepov: il bandolo dei suoi problemi è nell’orizzontale piattezza del mondo. Il suo viaggio e con esso quello dell’autore, che manifesta un’inclinazione allo slancio verso l’alto (per ora volo senz’ali), è in questo libro soltanto all’inizio e rimane quindi in sospeso. Non ci sono risposte nel finale, ma la promessa di «una speranza maggiore», la fede nel raggiungimento di un senso espresse nel prologo, rendono più confortante l’epilogo provvisorio.