Giuliano Capecelatro
Le parole per (non) dirlo

La lingua spensierata

Affatto, corrusco, piatire, catalizzare... sono solo alcune delle vittime del nostro parlare distratto, quando non propriamente ignorante. Malgrado gli sforzi dei dizionari che si aggiornano

Entrare ed aggirarsi in un giardino prensile. Roba da Lewis Carrol, per un’Alice nel mondo dell’acido lisergico. La prensilità è stata conferita a un qualsiasi giardino pensile sulle pagine di un quotidiano. Lapsus calami, ovverosia voce sfuggita ad una penna (computer) impertinente? Ignoranza, o casuale quid pro quo?

Comunque sia, il giardino in versione psichedelica guida una nutrita avanguardia di vocaboli che costituiscono nei fatti una nuova lingua, parallela all’ufficiale, spensierata, zuzzurellona, che poco o punto si cura di regole e grammatiche. Un pidgin italian che si accomoda sugli autobus, la metro, nei supermercati, nelle chiacchiere da caffè. Ma soprattutto si avvale, con sorniona strategia, del potere di diffusione e persuasione dei media e dei loro officianti. E sforna, impone, un campionario vasto di parole abbrutite, deformate, vilipese senza colpa alcuna, se non quella di essere docili strumenti del comunicare.

Per dire: che male ha fatto affatto? Avverbio con onorevole stato di servizio plurisecolare – i primi passi li avrebbe mossi già nel dodicesimo secolo –, si ritrova di questi tempi sbertucciato e squalificato, ridotto ad un ruolo affatto negativo, mentre quasi non c’è dizionario che non ne attesti a chiare lettere il valore positivo. Da quello di Tullio De Mauro, certo non uno che dava definizioni a schiovere, all’imprescindibile Zingarelli al sobrio Treccani. Univoca la sentenza: affatto sta per “completamente, interamente, del tutto”.

Sarà, ma nella comunità dei parlanti, e degli scriventi, il malcapitato viene spesso e volentieri infilato nel discorso come espressione negativa. “Sei felice?”, “Affatto”. Ora, se l’interlocutore è uomo di lettere darà per certo che l’interpellato abbia voluto rassicurarlo, e sarà a sua volta felice. Se è sceso dalla turris eburnea e ha lavato i panni in Arno, o in Tevere (ormai linguisticamente preponderante), resterà sospeso, interdetto: che avrà voluto dirgli? Se è un praticone della lingua, capirà che l’altro intendeva farlo partecipe di un suo profondo disagio esistenziale, e si terrà il più possibile alla larga.

Alberto Savinio, scrittore raffinatissimo, posava sugli strafalcioni uno sguardo ironicamente indulgente: «Il refuso – argomentava – è un contributo involontario alla pluralità e un correttivo alla monotonia dei significati». Ben detto, da condividere: la lingua è anche l’uso, e l’abuso, che se ne fa. E certamente gongolerebbe Savinio, nel constatare come i suoi compatrioti, non passa giorno, inconsapevolmente ma con ferma determinazione contribuiscano ad alimentare la pluralità dei significati e a trarre la parola dalla palude della monotonia. In barba alle monotonie, il cartellone presenta lo slittamento senza appello dello scintillante corrusco nella più nera tetraggine, che fa a pugni con i bagliori che il suddetto poeticamente sprizzava tra larve guerriere nell’orror de’ notturni silenzi. Quasi a irridere il Foscolo, non c’è giornalista, scrittore à la page, saccente conduttore di talk show che non lo usi come il fratellino cool di buio, scuro, cupo. Eppure, in questo caso, la compagnia dei dizionari fa quadrato su quanto vorrebbe, cercherebbe di dire corrusco, anche nella versione meno nota, corusco: scintillante, appunto; balenante e via lampeggiando. Accezione in cui lo diffonde nientemeno che padre Dante. Certo, obietterà tra gli applausi il sagace anchorman, non siamo più nel Trecento. Va da sé.

Altro giro, altro lapsus. Sotto i riflettori, comminare. Garruli, radio, televisioni, gazzette informano in tutta serietà che «la corte ha comminato a Tizio nove anni», «A Sempronio sono stati comminati venti anni». Ai giudici potrebbe venire un infarto, perché loro non sono tipi da minacciare – ah, il tanto vituperato latino, che dai lombi di minari, minacciare appunto, arriva all’odierno rampollo spurio! – alcunché. Un giudice che si limitasse a comminare – compito, questo, dei codici – tradirebbe, per la felicità degli imputati, il suo ufficio, che è quello di infliggere, irrogare pene. Per non parlare della sicumera con cui gagliardi operatori dell’informazione procurano incubi e palpitazioni agli operatori del diritto, accoppiando al sostantivo reato l’aggettivo penale, quando per i codici il reato è di per sé materia penale, mentre civile e amministrativo devono accontentarsi del meno arcigno illecito.

Talora l’affronto è duplice: alla lingua e, magari, alla scienza. Ne fa le spese, ad esempio, catalizzare. Imperturbabilmente propinato come sinonimo chic di calamitare. Ma la catalisi, sulla cui radice germoglia il verbo, è l’immissione di una sostanza in un processo chimico per accelerarlo, o anche ritardarlo; tutto qui. Solo una contorsione logico-espressiva può spingere a proporlo come alter ego di calamitare, attrarre.

Chi se la vede proprio brutta è piatire, che con cambio di vocale da settimana enigmistica viene di continuo rimodellato in pietire, forse con un occhio allo stato pietoso di chi chiede qualcosa con insistenza lamentosa: un intreccio in cui l’incolpevole lessema assurge addirittura al rango di metonimia. Dilaga a tal punto pietire che lo Zingarelli lo ha arruolato, affiancandolo al titolare effettivo, ma con tanto di censura: un inequivocabile “(evit.)” per dire che è meglio lasciarlo perdere.

Corrompere la lingua è una specialità in cui emergono autentici talenti. Nella mitologia è entrato il telegiornalista che spiattellò con anglofono sussiego un micidiale, e affatto incomprensibile, sain dai nel leggere l’espressione latina, evidentemente a lui ignota, sine die, cioè senza una scadenza fissata. Ma un posto sul podio meritano anche i non pochi che traducono aut aut, espressione disgiuntiva (o…o) nell’onnipresente latino, con il prezzemolo anglista di out out, che sarebbe come dire “fuori…fuori”. Søren Kierkgaard, che ha dato lustro e dignità filosofica alla locuzione, darebbe fuori (out) di matto. Per i lettori di giornali, dove questa perla trova fraterna accoglienza, un supplemento di oscurità.

Peccati veniali, tic linguistici, circolano in ogni dove. Con l’inglese che dà le carte. Un giovane scienziato italiano, tra i tanti che lavorano fuori dai confini, ha scritto in un post su facebook incorretto per dire scorretto, un calco evidente sul britannico uncorrect. C’è da adontarsi?

Contraltare a un Savinio giocosamente accomodante, è l’atrabiliare Arthur Schopenhauer, che scrisse un testo, godibilissimo nella sua irruenza polemica, in difesa della lingua tedesca, a suo parere insidiata da soverchiante ignoranza. «Da noi ciascuno scrive come vuole!», «Ogni sciocco scrive ciò che gli passa per la testa», «Tutto aiuta a demolire la lingua senza pietà», si allarmava l’accanito avversario di Hegel. E giù un’accorata apologia di prefissi e suffissi messi a rischio da mode e vezzi.

Una dose omeopatica di elasticità è d’obbligo. Le lingue cambiano, giorno dopo giorno, è un dato fisiologico Non fosse così, in Italia ancora si parlerebbe con gli allotta e i conciossiacosaché, eleganti quanto si vuole ma un tantino ingessati. Per capirsi, però, un minimo di stabilità è indispensabile, altrimenti se, per dirla con Schopenhauer, «ciascuno scrive (o parla) come vuole», altro che torre di Babele. I dizionari e le grammatiche, si sa, sono come l’intendenza napoleonica: arrivano a cose fatte; è la loro funzione storica. Fotografano, registrano, enunciano regole transeunti. Ma restano bussole insostituibili, purché non diventino un vangelo ad uso dei fondamentalisti della lingua.

E torna in pista affatto. Il simpatico e popolarissimo avverbio nella realtà emula il gatto di Schrödinger, al contempo vivo e morto; positivo, ma anche negativo. Se il Treccani è categorico («Non ha per se stesso valore negativo; è perciò ritenuto scorretto l’uso del semplice a., non raro nelle risposte, col senso di “niente affatto, no davvero”»), aperto al nuovo è il dizionario del Corriere della sera (i giornali! Non ci fossero bisognerebbe inventarli), che annota: «Per ellissi della negazione, ha acquistato di per sé anche il sign. di “no”, “per niente”, spec. nelle risposte».

Il duttile affatto viene spesso impiegato per rafforzare espressioni negative (niente affatto e via negando); da qui il progressivo scivolamento semantico. Su cui interviene, perentorio e controcorrente, il Garzanti, che alla prima definizione dà senza mezzi termini: «Neanche un po’, assolutamente no». Con piedi di piombo, la Crusca riconosce il fenomeno, assegnando all’avverbio il ruolo del cireneo, che si addossa la croce della negazione, che spetterebbe invece al sottaciuto niente. Tutti d’accordo? Affatto!

Accanto al titolo: Gastone Novelli, Totolettera, 1962

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