Una (ri)lettura per il 2018
Toccati da “Alcyone”
Breve “visita” alla raccolta di Gabriele D’Annunzio che alla sua apparizione dette una scossa importante alla poesia italiana, ferma a Carducci. Ci guida Leone Piccioni, con una scelta dei versi da lui preferiti, quelli «che ti toccano nel profondo e non ti abbandonano più»
Il 1903 è una data molto importante per la storia della poesia italiana contemporanea: esce l’Alcyone di Gabriele D’Annunzio. È una bella scossa di cui non ci si può non accorgere. Benedetto Croce invece non si fa spostare di un centimetro di fronte a quella vasta, comunque interessante, in gran parte nuova e penetrante opera di D’Annunzio. Per Croce si rimane a Carducci, l’ultimo Omerida, e anche dopo, fino alla sua morte, sarà così. Ma Croce ha la sua “estetica” che è molto bella. «Molto bella – gli disse un giorno Ezra Pound – peccato che non fonziona». (Ma Croce resta anche un grande scrittore, specialmente quando racconta i fatti e i fatterelli del popolo e dell’aristocrazia napoletana).
Torniamo all’Alcyone: sono migliaia di versi, talvolta anche inutili, spesso retorici, ma commoventi, di grande presa popolare e poetica, di non vaste proporzioni, per arrivare poi a opere di piccole dimensioni che ti toccano nel profondo e non ti abbandonano più.
Da Lungo l’Affrico nella sera di giugno dopo la pioggia:
Grazia del ciel, come soavemente
ti miri ne la terra abbeverata,
anima fatta bella dal suo pianto!
O in mille e mille specchi sorridente
grazia, che da la nuvola sei nata
come la voluttà nasce dal pianto,
musica nel mio canto
ora t’effondi, che non è fugace,
per me trasfigurata in alta pace
a chi l’ascolti. (…)
Da Ditirambo I:
(…) O Toscana, o Toscana,
dolce tu sei ne’ tuoi orti
che lo spino ti chiude
e il cipresso ti guarda;
dolce sei nelle tue colline
che il ruscello ti riga
e l’ulivo t’inghirlanda.
(…) o Fiorenza, o Fiorenza,
giglio di potenza,
virgulto primaverile;
e certo non è grazia alcuna
che vinca tua grazia d’aprile
quando la valle è una cuna
di fiori di sogni e di pace
ove Simonetta si giace.
Un frammento da Bocca d’Arno:
(…) Qual sia la sua bellezza
io non so dire,
come colui che ode
suoni dormendo e virtudi ignote
entran nel suo dormire.
Ma vediamo ora una delle più popolari e belle cantate dannunziane, La pioggia nel pineto, e La sera fiesolana.
Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.
Ascolta. Piove
dalle nuvole sparse.
Piove su le tamerici
salmastre ed arse,
piove su i pini
scagliosi ed irti,
piove su i mirti
divini,
su le ginestre fulgenti
di fiori accolti,
su i ginepri folti
di coccole aulenti,
piove su i nostri volti
silvani,
piove su le nostre mani
ignude,
su i nostri vestimenti
leggieri,
su i freschi pensieri
che l’anima schiude
novella,
su la favola bella
che ieri
t’illuse, che oggi m’illude,
o Ermione.
E poi ecco La sera fiesolana:
(…) Dolci le mie parole ne la sera
ti sien come la pioggia che bruiva
tepida e fuggitiva,
commiato lacrimoso de la primavera,
su i gelsi e su gli olmi e su le viti
e su i pini dai novelli rosei diti
che giocano con l’aura che si perde,
e su ‘l grano che non è biondo ancora
e non è verde,
e su ‘l fieno che già patì la falce
e trascolora,
e su gli olivi, su i fratelli olivi
che fan di santità pallidi i clivi
e sorridenti.
Con L’onda, oltre che con una bella prova poetica D’Annunzio si cimenta con versi che hanno un gran valore onomatopeico:
(…) il Mare.
Sembra trascolorare.
S’argenta? s’oscura?
A un tratto
come colpo dismaglia
l’arme, la forza
del vento l’intacca.
Non dura.
Nasce l’onda fiacca,
súbito s’ammorza.
Il vento rinforza.
Altra onda nasce,
si perde,
come agnello che pasce
pel verde:
un fiocco di spuma
che balza!
Ma il vento riviene,
rincalza, ridonda.
Altra onda s’alza,
nel suo nascimento
più lene
che ventre virginale!
Palpita, sale,
si gonfia, s’incurva,
s’alluma, propende.
E ancor di più:
(…)
O sua favella!
Sciacqua, sciaborda,
scroscia, schiocca, schianta,
romba, ride, canta,
accorda, discorda,
tutte accoglie e fonde
le dissonanze acute
nelle sue volute
profonde,
libera e bella,
numerosa e folle,
possente e molle,
creatura viva
che gode
del suo mistero
fugace.
Ed eccoci a Implorazione:
Estate, Estate mia, non declinare!
Fa che prima nel petto il cor mi scoppi
come pomo granato a troppo ardore.
La musica cambia, il suono è nuovo, le parole arrivano al segno più esaltato della poesia.
Estate, Estate, indugia a maturare
i grappoli dei tralci su per gli oppi.
Fa che il colchico dia più tardo il fiore.
Forte comprimi sul tuo sen rubesto
il fin Settembre, che non sia sì lesto.
Sòffoca, Estate, fra le tue mammelle
il fabro di canestre e di tinelle.
In Nella belletta ci sono in tutto otto versi che non invocano la morte ma che lasciano un senso profondo di perdita della vita che insieme commuove ed esalta.
Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio.
***
Lasciato ma mai dismesso l’Alcyone, per D’Annunzio si apre il grande ciclo della prosa con il Notturno. La prosa italiana faticava da tempi molto lunghi, sì da ricordare come il più grande prosatore il Guicciardini, e siamo nel ‘500. Ci sono i romanzi, bei romanzi Il piacere e L’innocente. E c’è il teatro con, tra gli altri drammi, La figlia di Jorio. E c’è sempre presente l’uomo che volge all’eroismo: il volo su Vienna guidando squadriglie di aerei italiani sulla capitale nemica per lanciare manifesti di giustizia e di pace. E ancora la cosiddetta “Beffa di Buccari” (con Costanzo Ciano su una piccola imbarcazione, affondarono con questa azione una corazzata tedesca) e infine, finita la guerra nel 1919, la goliardica impresa della Repubblica di Fiume nella quale D’Annunzio come capo di questa nuova comunità si trovò a dialogare e a far guerra con lo Stato italiano.
La morte di D’Annunzio avverrà a Gardone nel 1938, al Vittoriale, che pare sia stato una concessione di Mussolini al poeta perché non ostacolò la nascita del fascismo (e poteva, poteva con il suo fascino e la sua forza!). Nel giardino della villa D’Annunzio volle anche la tolda di una nave guerriera e rese l’abitazione degna d’un re, con innumerevoli opere d’arte, oggetti, gioielli, stoffe di gran pregio. Una mancanza di stile si può imputare al poeta: l’attività sessuale alla quale non volle rinunciare malgrado l’età raggiunta. Ma non è questa povertà di immagini umane che soffoca la nitidezza e la grandezza dell’opera poetica e culturale di Gabriele D’Annunzio.