Per un protagonista dimenticato
La coscienza storica di Concetto Marchesi
In memoria del grande latinista Concetto Marchesi, che fu uno degli animatori dell'identità italiana democratica durante il fascismo e, con il suo esempio, segnò il destino - libero - di una generazione
Tra qualche giorno cadono settantaquattro anni da quando, «tra le rovine di una guerra implacata», Concetto Marchesi – il grande latinista, il parlamentare libero, l’appassionato comunista – si dimise da rettore dell’Università di Padova. «Non intendo apparire un vostro collaboratore», scrisse al ministro dell’educazione nazionale, e lanciò un appello ai suoi studenti: «Non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita».
Ai più giovani il nome di Concetto Marchesi si associa certo assai più ad una straordinaria Storia della letteratura latina – e a fondamentali studi sull’amatissimo, e modernissimo, Lucrezio – che non allo straordinario vissuto nella drammatica temperie dell’Italia materialmente e moralmente distrutta da una guerra infame. O a quell’ultimo suo memorabile intervento all’ottavo congresso del Pci nel 1957, quando non esitò a criticare, andando controcorrente, il “rapporto segreto” di Nikita Krusciov: «Tiberio, uno dei più grandi e infamati imperatori di Roma, trovò il suo implacabile accusatore in Cornelio Tacito, il massimo storico del principato. A Stalin, meno fortunato, è toccato Krusciov».
Ma chi abbia a cuore la memoria storica non può non risalire assai più indietro. A quando, mentre esplodeva e si organizzava la resistenza al nazifascismo, Marchesi inaugurò il 722mo anno dell’Ateneo patavino con parole tanto severe quanto nutrite di speranza nella capacità dei giovani di riscattare il destino della patria.
Era la mattina del 9 novembre 1943 quando, indossata – come era d’uso allora – la mantella di ermellino, esclamò rivolto soprattutto agli studenti: «Sotto il martellare di questo immane conflitto cadono per sempre privilegi secolari e insaziabili fortune, cadono signorie, reami, assemblee che assumevano il titolo della perennità. Ma perenne e irrevocabile è solo la forza e la potestà del popolo che lavora e della comunità che costituisce la gente invece della casta. In queste ore di angoscia, tra le rovine di una guerra implacata, si apre l’anno accademico. In nessuno di noi manchi, o giovani, lo spirito della salvazione. Confidate nell’Italia e nella sua fortuna se sarà sorretta dalla vostra disciplina e dal vostro coraggio. Confidate nell’Italia che deve vivere per la gioia e il decoro del mondo, nell’Italia che non può cadere in servitù senza che si oscuri la civiltà delle genti».
Mentre Concetto Marchesi stava parlando, un manipolo di guardie repubblichine osò violare l’Aula Magna. Grande fu lo sdegno degli studenti. Il loro rettore attese e ottenne dai giovani quella che definirà più tardi la “riconsacrazione del tempio”. E quindi, lo stesso giorno (ma la lettera è post-datata al 1° dicembre e verrà diffusa solo il 5), Marchesi mise mano a penna, come usava sempre fare, e scrisse al ministro dell’educazione nazionale: «Ho consentito di restare al mio posto sino all’apertura dell’anno accademico e l’inizio dei corsi perché l’ateneo padovano avesse non ignobile avviamento. [… Tuttavia] non intendo apparire collaboratore di un governo da cui mi distacca una capitale e insanabile discordia». Quindi le dimissioni irrevocabili: «Ella volle un giorno riconoscermi la fermezza del carattere. Non vorrà rimproverarmi oggi di averla mantenuta».
Più tardi, il 28 novembre, lanciò un appello ai suoi studenti: «Sono rimasto a capo della vostra università finché speravo di mantenerla immune dalla offesa fascista e dalla minaccia germanica, fino a che speravo di difendervi da servitù politiche e militari, e di proteggere con la mia fede, pubblicamente professata, la vostra fede costretta al silenzio, al segreto. Oggi non è più possibile sperare che l’università resti asilo indisturbato di libere coscienze operose mentre lo straniero preme alle porte dei nostri istituti e l’ordine di un governo che, per la defezione di un vecchio complice (chi non vi riconosce il Savoia, fuggiasco l’8 settembre? ndr), ardisce chiamarsi repubblicano e vorrebbe convertire la gioventù universitaria in una milizia di mercenari e di sgherri massacratori». Poi l’esplicita chiamata alla lotta: «Traditi dalla frode, dalla violenza, dalla ignavia, dalla servilità criminosa, dovete rifare la storia d’Italia e ricostituire il popolo italiano […]. Non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dall’ignominia, aggiungete al labaro della vostra università la gloria di una nuova, più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e la pace nel mondo».
L’appello sarà raccolto, il nazifascismo sarà sconfitto, la nuova Italia – come Marchesi e tanti con lui volevano – sorgerà dalle rovine di «una guerra implacata». L’Università di Padova – unica tra gli atenei italiani – è stata più tardi insignita della medaglia d’oro al valor militare «per le attività nella lotta di liberazione dal nazifascismo».
Grazie a Concetto Marchesi e agli studenti padovani.
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