In mostra all'Ara Pacis di Roma
Souvenir Hokusai
Il mistero della Natura che si fa manifesto: una grande mostra rende omaggio al segno puro e rarefatto del pittore giapponese Hokusai. Per lui, l’arte era una vibrazione acrobatica su un filo teso tra novità e tradizione
Smettiamo di considerare il nostro Occidente unico baricentro del Mondo. Almeno per una volta. Per comprendere e apprezzare l’arte di Katsushika Hokusai (1760-1849), uno dei padri fondatori della pittura moderna, e gustare in tutta la ricchezza di stimoli e sfumature la mostra con cui il museo dell’Ara Pacis gli rende omaggio, portando in scena fino al 14 gennaio circa duecento opere sue e dei suoi seguaci. È nell’atmosfera e nella cultura del Giappone del tempo che bisogna calarsi. Rivisitando quella straordinaria stagione di unificazione e sviluppo che per due secoli ne scandisce la vita: Edo, la futura Tokio, la capitale che diventa la più popolosa città del pianetamondo, la nascita di una classe media di mercanti, imprenditori, professionisti, nuovi ricchi assetati di svaghi, stimoli, piaceri. Immagini che li rappresentino e aprano varchi in un sistema troppo rigido e gerarchico, costruiscano ponti verso l’Occidente cui il Giappone sta per aprire le frontiere e verso tradizioni che non vogliono comunque abbandonare.
A scolpire questo complesso scenario di bisogni, mutazioni ed attese è una definizione davvero folgorante: Ukiyo, il mondo fluttuante. Ukiyoe, furono battezzate le icone che registravano slanci ed umori di questa società fluida e in fermento. Immagini dipinte su paramenti di seta da appendere in casa, ma soprattutto riprodotte a stampa su carta per moltiplicarne la circolazione. Di quest’arte nascente sempre più organizzata a livello industriale come uno dei segmenti più produttivi dell’editoria e delle proposte d’arredo domestico più gettonate Hokusai fu indiscusso e trascinante maestro. Un perfezionista mai pago che in un diario scritto quando ormai si avvicinava alla morte e firmato con il soprannome di Mani il vecchio, dichiarava di aver capito l’impresa impossibile di dare forma alla realtà, rispettandone l’essenza, in cui si stava cimentando solo a partire dai sessant’anni, di aver raggiunto risultati più apprezzabili solo venti anni dopo, e chiedeva altri dieci o venti anni ancora per approdare alla purezza assoluta del segno. Dipinse di tutto, Hokusai, rispondendo alla richieste del mercato e dei committenti. Ma il genere in cui ha lasciato l’impronta più inconfondibile è quello dei paesaggi. Vedute che la gente comprava, sciolte o riunite in volumi, come oggi si acquistano le cartoline. Souvenir di un viaggio già fatto o consigli per un viaggio da intraprendere: Meisho, mete da non perdere era il nome che le catalogava, e ora battezza il capitolo più corposo e gustoso di questa mostra.
No, inutile far paragoni. L’arte dell’Occidente non sa tenersi a galla così. Non ha imparato a nuotare aggrappandosi a questa ciambella di filosofia zen, che ha la consistenza di un profumo o di un suono. Anche gli impressionisti francesi, figli dello stesso secolo di impetuose trasformazioni e grandi ammiratori collezionisti dei maestri di Ukiyoe soluzioni, di cui hanno preso in prestito molte soluzioni visive , hanno inseguito il tempo che fugge e cercato d’immortalare l’istante. Ma con un approccio scientifico o di pura esaltazione dei sensi che chiudeva la porta alle risonanze del sacro.
Una distanza che allontana, rimuove gli echi che hanno partorito la Grande Onda, l’icona che ha consacrato in Europa la fama di Hokusai e di cui molti di noi si sono impossessati, dimenticando che quello scorcio così toccante è solo la parte di un tutto, il capitolo di un intero poema in una trentina di quadri riservato all’ipnotico esoterico fascino del monte Fuji, una sorta di Olimpo dell’immaginario giapponese. Un campionario di vertiginose inquadrature che la mostra dell’Ara Pacis ripropone integralmente, consentendoci di rifletterci su.
Eccola, dunque, la Grande Onda, nel suo formato originale, un piccolo foglio accanto ad altri piccoli fogli sullo stesso tema. È vero: l’occhio è calamitato soprattutto da quell’impennata blu di Prussia che si lancia all’attacco come la bocca di un drago e sputa fiocchi e bolle di spuma che sembrano artigli. E poi dalla sagoma appena intravista della barca e di un marinaio sommersi, forse inghiottiti per sempre, da quella valanga d’acqua. Ma fissate bene lo sfondo, dove contro una bruna marrone si staglia il cono vulcanico innevato del monte Fuji. E poi tornare a osservare la seconda onda giù in basso, in primo piano. Non è altro che una riproposizione ingrandita ma camuffata da fiocchi di risacca di quella stessa inafferrabile e numinosa montagna, che in preda a chissà quale ira, è precipitata lì in mare e dal mare si sta risollevando. Il mistero della Natura che si fa manifesto. Quel segno puro e rarefatto che all’incontentabile Hokusai non bastava di aver raggiunto. Ma che torna con altre modulazioni, altre magie grafiche la permanenza di quella cima di paradiso e inferno nel mutare continuo del tempo, delle ore e delle stagioni. Una massa di balze sbiadite e morbidi ghiaioni al momento dell’alba. Un rosa acceso tagliato da piccoli ruscelli di neve accerchiata giù in basso dal pendio verde dei boschi e su in alto da stracci di nuvole striate: una giornata limpida col vento del Sud. Il marrone cupo che avvolge la base del vulcano quando scoppia un temporale a mezza costa e il tragitto dei fulmini sembra scavare sentieri di fuoco sui pendii. E poi ancora un miraggio lontano macchiato di blu o trascolorato nel bianco quando l’occhio del viaggiatore si concentra sulla vita ai piedi della montagna: il pescatore che getta le reti, ricami tessuti in un silenzio cremoso, i marinai di una barca che passa, i contadini che lavorano i campi, il bagliore rosso fuoco di un tramonto che dilaga nell’aria. E così via un haiku dopo un altro. L’arte come vibrazione acrobatica su un filo teso tra novità e tradizione.
Acrobatico è anche il modo in cui i maestri dell’Ukiyo si destreggiano su un altro tema difficile, quello della sensualità, interpretando la moda dei ritratti che esaltano la bellezza di dame e cortigiane, altro ricco siparietto di questa mostra. Licenziose e a volta sboccate le stampe e le illustrazioni di libretti da vouyer che circolano in maniera clandestina nel Giappone del tempo per eludere la censura. Più castigate ma non meno sensuali le immagini di donnine in posa in interni di bordelli e case da te. Anche Hokusai si cimenterà su questi due filoni, fedele alla sua vocazione di maestro di ogni tipo di disegno e a un gusto per la caricatura che fa dei suoi prontuari di schizzi modelli profetici dei fumetti del Novecento nipponico. Ma lo scettro in questo campo va ad un artista di trent’anni più giovane, Keisai Eisen (nella foto), altro grande protagonista chiamato a sfilare su questa passerella romana. Davvero preziose quelle sue geische, fasciate da incredibili kimono variopinti e modellati come onde che suggeriscono fantasiosi piaceri proibiti. Un gusto per la decorazione che scatenerà entusiasmo nella Parigi fine Ottocento dove queste stampe approdano per la prima volta e vanno a ruba. Anticipazioni dell’Art Nouveau e del Liberty. In uno dei più famosi ritratti di Van Gogh, quello di père Tanguy, è riprodotto sullo sfondo proprio un disegno di Eisen. L’originale è qui esposto in bacheca a evocare il virus esotico del «Japonisme» che contagerà molti dei grandi maestri francesi dell’epoca. È l’Oriente a far scuola.