La nuova animazione
La vita in un telefono
Emoji, ultimo nato della grande famiglia Sony, è un film girato con le mani e scritto con i piedi. La storia di Messaggiopoli, la città che vive dentro ogni smartphone...
È arrivato nelle sale il nuovo prodotto Sony, Emoji – Accendi le emozioni diretto da Anthony Leondis (Kung Fu Panda: I segreti dei Maestri, Lilo & Stitch 2). La storia in breve: all’interno di ogni smartphone esiste una città chiamata Messaggiopoli ed è la patria degli emoji. Nonostante sia coloratissima e graficamente invitante, Messaggiopoli si regge su una struttura sociale rigida all’interno della quale ognuno ha un suo ruolo prestabilito al quale non può sfuggire. In poche parole a un emoji è concesso di esprimere una sola emozione, quella per la quale è stato programmato. Ed è proprio questa la tragedia esistenziale del protagonista Gene, emoji concepito per esprimere il meh, vale a dire una perenne mancanza di interesse o entusiasmo. Il nostro povero eroe non riesce a trovare un suo collocamento perché istintivamente portato all’espressione di più emozioni. E come nella migliore delle tradizioni narrative, Gene deve essere distrutto, resettato, cancellato perché non è in grado di conformarsi.
L’animation movie è sempre stato un mezzo espressivo vivo, rivoluzionario, attuale. Erede della favola tradizionale, questo genere è sempre al passo con i tempi e la tecnologia, dimostrando forse meglio di ogni altro cinema di saper rispettare le radici dello storytelling, facendo della metafora narrativa una vera e propria arte. Ma l’animation movie è andato oltre. Quella metafora narrativa l’ha saputa attualizzare, ricalibrare nelle sue prospettive diventando così cartina al tornasole se non addirittura catalizzatore di cambiamenti sociali e culturali. Come si può dimenticare il ribaltamento del topos sul quale si regge gran parte se non l’intero Monster & Co. della figura del mostro nell’armadio, che vede il bogeyman terrorizzato dai bambini in contrapposizione a una tradizione che da secoli propone l’esatto contrario? E che dire di Toy Story con le sue eco collodiane e l’invito al riciclo in un mondo permeato dal consumismo?
Emojii è tutto questo ma in negativo. Il film, per carità, tecnicamente impeccabile, contenutisticamente è un calderone nel quale si mischiano e si agitano riferimenti ad animation venture più solide e fortunate. Impossibile non cogliere le citazioni (volontarie, involontarie?) di Monster & Co., Inside Out e molti altri ancora. I topoi sono quelli di sempre: l’incapacità di conformarsi, il diverso, la lotta all’ipocrisia sociale. Non mancano poi le ultime tendenze, incarnate dal personaggio della emoji Hacker che si rifiuta di conformarsi agli stereotipi culturali femminili, portate alla ribalta negli ultimi anni dai personaggi di Ribelle, Rapunzel e Frozen. In emoji non solo sono le ragazze a salvare i ragazzi ma viene prestata grande attenzione alla scrittura di coppie interrazziali, come quella dei genitori del ragazzo proprietario dello smartphone all’interno del quale vive il nostro Gene.
Più che una avventura, più che un catalizzatore, Emojii in realtà è solo il valhalla del product placement, con i suoi riferimenti per nulla pacati a Twitter, Facebook e altri social. E l’ironia che dovrebbe essere tagliente finisce col risultare solo stagnante, un occhiolino per salvare baracca e burattini visto che oggigiorno una delle attività principali dei genitori è proprio quella di salvare i bambini dalla dipendenza virtuale.
Si perdonino dunque i giochi di parole che seguiranno a breve. Emoji è un film telefonato. Un concetto narrativo che manca il segno così palesemente da non riuscire nemmeno a suscitare il meh che il protagonista dovrebbe interpretare.