A proposito di “Quasi leggera morte”
Laboratorio Mandel’štam
Nelle Ottave di Osip Mandel’štam c'è la furia della scrittura - sempre sottoposta a controllo totale dall'autore - che tende a quell'assoluto creativo nel quale la realtà si fa simbolo
Alla mia prima lettura, anni orsono, di Conversazione su Dante (1933) di Osip Mandel’štam rimasi letteralmente folgorato da quel passaggio usato dal poeta per descrivere a cosa potesse essere paragonata, per il suo effetto conturbante, l’opera dell’esule fiorentino: «Se le sale dell’Ermitage all’improvviso dessero fuori di matto, se i quadri di tutte le scuole e di tutti i grandi pittori all’improvviso si staccassero dai chiodi, penetrassero l’uno nell’altro, si mischiassero fra loro e riempissero di urla futuriste e di una furiosa eccitazione cromatica l’aria che odora di chiuso, ne deriverebbe qualcosa di simile alla Commedia dantesca». Quella tensione esemplificativa, quell’analogico “come se”, fu tangibile indizio di cosa debba intendersi per immaginazione critica. Per non dire della necessità di strappare Dante (e qui la considerazione dovrebbe estendersi a tutti i classici) al lavorio di generazioni di notomizzatori, mosso dalla volontà di dar vita a «un genuino anticommento»: ancora oggi non so trovare una altrettanto efficace esortazione metodologica, un motto più consono, ogni qualvolta abbia la possibilità di accostarmi a un classico. E nel consegnarci la chiosa finale circa il peso specifico degli slanci danteschi, del rapporto di subordinazione di essi con il testo, ne individua alla base – vera e propria «legge della materia poetica» –, uno slittamento dal nominativo al dativo: a indicare una direzione, un possibile e potenziale divenire; e che «esiste solo nello slancio dell’esecuzione».
Non a caso Serena Vitale, traduttrice e curatrice della raccolta delle Ottave mandelstamiane (Quasi leggera morte, Adelphi, 2017, €10,00), nella sua puntuale e doviziosa introduzione all’edizione italiana, chiama in causa questo cruciale passaggio della Conversazione per porre l’accento sulla convinzione del nostro circa il ruolo attivo – di esecutore-creatore – del lettore; riconoscendo così, proprio nella germinante capacità di completare ogni volta l’opera del poeta, «la più radicale e insieme straziante utopia» di Osip Mandel’štam. La Vitale ricostruisce la storia di questa esigua silloge (appena undici componimenti): non un vero e proprio ciclo ma, stando alla testimonianza della moglie del poeta Nadežka Jakovlevna, una «raccolta casuale». Ritenute le più oscure e sfuggenti della produzione mandel’stamiana, le Ottave furono in gran parte scritte nel 1933 (ma apparse integralmente in Russia soltanto nel 1981), negli anni del ritorno alla poesia, dopo un periodo di silenzio, cui contribuì non poco la frequentazione con il giovane entomologo e biologo Boris Kuzin, che ebbe l’effetto di approfondire la considerazione “organica”, biologica dell’atto poetico.
La sincronia senza tempo delle Ottave, si apprezza ancor più decidendo di compiere un deliberato distanziamento dal fitto sostrato interpretativo a esse connesse, dalla rizomatica intertestualità in esse ravvisata dai numerosi esegeti (a tal proposito si rimanda alle meticolose note della curatrice). Ciò proprio nel rispetto di quell’atto (partecipativo) di co-creazione del testo cui la lettura, secondo Mandel’štam, dovrebbe somigliare.
Due, in fondo, le domande che s’impongono al lettore di queste «poesie fallite» (così le definì il poeta stesso): da dove originano questi versi? Quale agnizione aspirano a portare alla luce?
Esse aggallano dal pozzo dell’informe, si staccano dal caos del “parlato”, segnano un’esatta discontinuità. Si potrebbe dire che rappresentano una sorta di sublime laboratorio sul trattamento della materia poetica, o meglio: la fissazione della sua scaturigine; colta nel momento stesso in cui la poesia si palesa, accade (in ciò il legame con la Conversazione si fa ancora più macroscopico). A rifondare il senso comune del linguaggio, a scalfire la crosta superficiale delle parole: composte a indicare una risorgente possibile alternativa di significanza (che si dia, si esaurisca, nella materia stessa della misura, del verso, dell’ottava). Parole che, per quel meccanismo che con straordinario acume Mandel’štam battezzò (ancora riferendosi a Dante) «riflessologia del discorso», agiscono sugli interlocutori/lettori, ma anche su colui che parla/scrive; e che giunge a riverberarsi perfino sui mezzi adoperati dal poeta per far conoscere quel «segnale luminoso»: il «repentino desiderio di esprimersi». Così nel finale dell’Ottava VI: «La frase si regge/ unicamente sul suo slancio/ sta, quel periodo, alla carta/ come la cupola ai cieli vuoti». L’erompere della parola poetica diventa, metaforicamente, l’«apparizione del tessuto»: il «sospiro che risana» (Ottave I e II), l’«espansione ad arco» che risuona, d’improvviso (Ottava II).
Nell’Ottava IV svela l’incredibile prossimità – alla quale «rispondere all’istante» – dell’«inaccessibile»: quell’«Absolu» che, come scriveva l’amato Bergson nell’Evoluzione creatrice, «si rivela molto vicino a noi e, in una certa misura, in noi». Non poche le astrazioni percettive rintracciabili e che, per un sincronico cortocircuito, conducono all’atmosfera di certe cosmicomiche calviniane, come per esempio La spirale. Si legga, per intenderci, la quartina finale dell’Ottava V: «E il sordo animalcolo si tende/ come per una strada a corno ritorta,/ per capire l’eccesso interno dello spazio,/ del petalo pegno, e della cupola». Diverse ottave, specie quelle centrali dell’esigua raccolta, si aprono con una “E…” – a dire quasi di un discorso poetico ogni volta ripreso, strappato via da una pre-esistente «infinità»: «Forse il sussurro nacque prima delle labbra,/ e senza alberi mulinano le foglie/ e coloro ai quali consacriamo l’esperienza/ prima dell’esperienza avevano già i tratti» (Ottava, VII). Ciò non contraddice l’idea dell’edificazione dello spazio della poesia (forma riconoscibile e definita) come «negatività» rispetto a quello che Jean-Luc Nancy, in alcuni testi sulla poesia recentemente tradotti per la prima volta in italiano (La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia, EDB, 2017), definisce l’«infinito del discorso».
Se poi riandiamo al concetto mandelstamiano di slancio poetico come movimento, pendolo tra balbettio (lepet, in russo) ed esperienza («dal balbettio lui modella l’esperienza,/ dall’esperienza beve il balbettio», Ottava IX), quel balbettio-borbottio che Mandel’štam riconobbe alla lingua italiana – puerilità di accento di suono, di senso –, quel «balbettio» converge verso un’integrale «esattezza» (direbbe Nancy), un fare che è insieme (e indissolubilmente) un compiere («ciò che è fatto è finito», Nancy, Fare la poesia): un accesso al senso che coincide con la soglia stessa della dizione poetica; è la tensione al limite di una “intransitività” che fa («ex –actum») la realtà, incarna «esattamente e letteralmente la verità» (Nancy).
domenico.calcaterra@gmail.com
—–
Riferimenti bibliografici:
Osip Mandel’štam, Conversazione su Dante (a cura di Remo Faccani), Il Melangolo, 1994; Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte. Ottave (a cura di Serena Vitale), Adelphi, 2017; Jean-Luc Nancy, La custodia del senso. Necessità e resistenza della poesia (a cura di Roberto Maier), EDB, 2017.