La crisi in un libro del 1978
Il privilegio del lavoro
A quasi quarant'anni di distanza, "La chiave a stella" di Primo Levi è ancora un romanzo premonitore del rapporto sbagliato che il capitalismo d'oggi ha con il lavoro e con l'identità di chi lavora
«Io so bene quale terribile problema sia oggi in Italia e in tutto il mondo trovare lavoro e sentire se stessi investiti di una piccola funzione sociale. Posso solo dire che è difficile, ma chi a questo minuscolo acquisto di potere può arrivare dovrebbe percepire il fatto di lavorare bene non solo come un dovere, ma come una salvazione». Erano gli anni Ottanta quando Primo Levi, intervistato ai microfoni di una radio italiana, parlava della centralità del lavoro per gli uomini e ne definiva il ruolo primario nella società, non senza essere oggetto di polemiche da parte dell’opinione pubblica. Levi, che proprio il 31 luglio del 1919 nacque a Torino e che al lavoro dedicò alcune tra le pagine più importanti della nostra letteratura, sapeva forse che trent’anni dopo, tale affermazione sarebbe stata ancora molto attuale? Una dichiarazione simile, infatti, letta oggi, chiarisce il perché di tanto diffuso senso di frustrazione che invade gran parte della società: nell’universo lavorativo odierno, votato alla precarietà, l’insoddisfazione si fonda proprio sulla difficoltà, da parte di un numero sempre crescente di cittadini, di lavorare dignitosamente e trovare la propria funzione sociale.
Nella nostra contemporaneità, infatti, possedere o meno un qualsiasi incarico lavorativo, non è più soltanto una questione legata al compenso economico e dunque alla possibilità di condurre una vita più o meno agiata, ma si fonda altresì sulla figurazione sociale del lavoratore stesso e sul prestigio che, grazie al suo impiego, l’essere umano riveste o meno agli occhi della società.
Levi, noto al mondo per quanto seppe testimoniare della sua esperienza nell’aberrazione umana di Aushwitz (dove riuscì a sopravvivere proprio “grazie” alla sua professione che lo rese un prigioniero “utile”), pubblicò nel 1978 per Einaudi La chiave a stella, romanzo da lui stesso definito il suo «primo lavoro professionale», avendo da tempo smesso di fare il chimico per dedicarsi completamente alla scrittura. A ispirargli, dopo tanti anni, vicende e personaggi, fu certamente la lettura di Remorques, romanzo del ’35 del francese Vercel, (tradotto in italiano da Alice Volpi nel 2013, con il titolo Tempesta per la casa editrice Nutrimenti) avvenuta durante l’ultima notte trascorsa ad Aushwitz nell’infermeria del campo di concentramento dov’era ricoverato.
Ne La chiave a stella, che l’anno seguente gli valse il premio Strega, sono narrate, in quattordici capitoli, le vicende di Libertino Faussone detto Tino, montatore di tralicci, piloni e ponti in giro per il mondo. È già nel titolo che si annida la portata quasi perfetta di uno dei romanzi più belli di sempre: la chiave a stella infatti è un utensile, un prezioso strumento che Faussone porta con sé durante il suoi lavori: non può farne a meno ogni qualvolta è chiamato a controllare il serraggio di chiavarde o a ispezionare la tenuta dei bulloni. Con il suo tocco magico al momento giusto la chiave a stella assume per Faussone il simbolo di autorità e di perizia, quasi come si trattasse di un’arma bianca in grado di risolvere tutte le complessità e le emergenze.
«Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono». A dirlo è Faussone, protagonista e testimone, nel corso della narrazione, di una sorta di educazione al mestiere che si acquisisce soltanto attraverso l’attenzione per la propria mansione, coadiuvata da impegno e dedizione costanti e dal desiderio di portare a termine un lavoro ben fatto, senza sbavature e approssimazioni, un lavoro decoroso fatto con dignità. Tino Faussone è un uomo loquace e di compagnia, che ha fatto della sua professione il suo unico baluardo. Non è colto e non si esprime certo in un linguaggio forbito, ha modi gentili anche se talvolta parecchio schietti e le sue esperienze lavorative lo hanno reso sicuro delle proprie capacità conferendogli una buona fama tra gli addetti ai lavori; per questo la sua professionalità è ricercata ovunque, soprattutto quando si tratta di svolgere compiti complessi e importanti.
Tino gira il mondo dunque e, tra un montaggio e l’altro, i suoi occhi si soffermano sulle abitudini dei nativi del posto, con i quali riesce sempre ad instaurare una relazione, se non di confidenza, quantomeno di vicinanza e rispetto. Questo certamente perché Faussone, nonostante i continui viaggi all’estero, non ha dimenticato le proprie origini contadine e l’approccio con i suoi simili è naturalmente votato alla semplicità e alla familiarità.
La struttura che Levi sceglie per La chiave a stella è molto originale: non si tratta di un romanzo tradizionale ma di un testo dotato di un impianto narrativo singolare, ovvero una serie di racconti sostenuti da una storia, che li rende fruibili. Nel romanzo, tenuto in piedi da un lungo dialogo a due, Levi dà voce a Faussone ed interpreta se stesso: l’escamotage narrativo è infatti l’incontro, durante un viaggio di lavoro all’estero, tra un chimico di una società di vernici (Levi stesso) e il montatore di tralicci Faussone, ambedue piemontesi: due italiani all’estero che si fanno compagnia ed instaurano un rapporto di confidenza condividendo, quasi obbligatoriamente, le ore libere o anche soltanto la pausa pranzo nella mensa aziendale. La relazione di conoscenza e amicizia tra Levi e Faussone, inizia per caso si fonda sul racconto di curiose vicende lavorative che il tecnico piemontese decide di condividere con il suo nuovo “amico”, di cui viene a sapere non solo essere un chimico ma anche uno scrittore; Faussone, con bonarietà e concretezza, è certo che i suoi racconti possano interessare Levi e divenire magari, materia dei suoi futuri scritti, una volta tornato a casa.
«Lei poi, se proprio lo vuole raccontare, ci lavora sopra, lo rettifica, lo smeriglia, toglie le bavature, gli dà un po’ di bombé e tira fuori una storia». Nel romanzo i due personaggi a colloquio, si distinguono soprattutto per il linguaggio. Anche se al chimico Levi la parola è data meno di frequente, specie a causa della prolissità di Faussone, è evidente la differenza dei registri linguistici rispettivamente usati dai due interlocutori: quello utilizzato da Levi interprete di se stesso si mantiene alto, colto e raffinato, quello di Faussone invece tradisce origini popolari, non disdegna espressioni gergali e proverbiali e si avvale spesso di elementi linguistici dialettali italianizzati. Attraverso i racconti di Faussone e l’ascolto paziente del chimico Levi, tra il ricordo di un cantiere e l’altro, il lettore potrà girare il mondo, intuendo volta per volta, riferimenti a luoghi precisi e aspetti culturali conosciuti e meno conosciuti. Quello di Faussone è modo di osservare il mondo piuttosto singolare che, pur non aggiungendo alle vicende narrate illuminazioni o particolari colti, si avvale sempre di un’umanità primigenia, quasi astorica, essendo in grado di descrivere popoli e genti incontrate con un’elementarità genuina e antica. Il lettore che si avvicina a “La chiave a stella”, fatica a non affezionarsi alla semplicità del suo protagonista, anche quando le descrizioni dei lavori svolti si fanno più specifiche e la terminologia si arricchisce di tecnicismi. Faussone riversa sul suo lavoro, consapevolmente o meno, tutta la sua esistenza: non ha una famiglia o una fidanzata ad attenderlo in Italia, ma solo delle zie anziane e puritane alle quali è molto affezionato ma che spesso preferisce non vedere per evitare i loro tentativi di ammogliarlo.
Anche nei brevi accenni ad eventuali relazioni amorose, Faussone sembra parlare con distacco, come se l’amore fosse un onere doveroso a cui ottemperare, un carico da prendersi talvolta ma senza alcuna illusione di durevolezza o progettualità. È il lavoro ad occupare la sua esistenza sin da piccolo, anche se Tino non può certo raccontare di esser nato facendo il montatore di tralicci: in realtà il suo primo impiego lavorativo stipendiato è alla Lancia, fabbrica torinese di automobili dove fa l’operaio nella catena di montaggio anche se suo padre, artigiano stagnino, lo avrebbe voluto continuatore della sua attività. Tramite i racconti di Faussone, Levi accenna alle peculiarità dei tanti altri mestieri esistenti ai suoi tempi ai quali non manca mai di conferire dignità. Certo che il suo romanzo avrebbe sollevato più di una polemica, Levi proseguì ugualmente nel tentativo di mostrare come, quella tra l’uomo e il proprio lavoro, fosse una connessione felice e non un rapporto oppressivo; dopo il secondo conflitto mondiale, l’apparato produttivo industriale italiano aveva subito importanti trasformazioni, tentando di raggiungere il passo dei vicini paesi europei più avanzati. Fino ad allora, il nostro era sempre stato, in termini lavorativi, un paese a maggiore vocazione contadina e artigianale, per cui l’impatto industriale sul territorio italiano non fu soltanto un processo di inserimento innovativo in termini logistici e strutturali, ma rappresentò l’introduzione (dunque la nascita) di una nuova realtà sociale, prima di allora del tutto sconosciuta. Dalla nuova realtà del lavoro in fabbrica o, più in generale, del lavoro di produzione in grande scala, il lavoratore si ritrova ad assorbire e tematizzare tutta una serie di meccanismi nuovi e in costante trasformazione; molta della letteratura industriale del tempo, aveva già trattato il tema del lavoro, lo aveva fatto concentrandosi perlopiù sull’alienazione da esso scaturita, che avrebbe pian piano ridotto l’uomo ad un automa, ad una macchina produttrice di profitti, senza più stimoli vitali.
Con La chiave a stella Levi sovvertì questa tendenza, non abbandonandosi ad una retorica di demonizzazione del lavoro né, al contrario, una precettistica di completa abnegazione e sottomissione ad esso. Nel romanzo Levi infatti non vuole analizzare il tema del lavoro attraverso il punto di vista della collettività, ma piuttosto attraverso quello del singolo che sceglie di svolgere al meglio la sua mansione, per questo in esso non compaiono ( se non in uno dei racconti di Faussone ,ma senza alcun intento polemico o provocatorio) tematiche specifiche di certa letteratura industriale, quali la ripetitività delle azioni meccaniche, i ritmi di produzione frenetici, il grigiore della vita nello stabilimento o nell’azienda, e via di seguito. Il testo di Levi è piuttosto un omaggio alla libertà dell’uomo moderno, una libertà che seppur sempre in pericolo, rimane tale e che va adattata ai tempi, curata, protetta, coltivata; nel caso specifico del lavoro, la libertà cui Levi accenna si alimenta con l’impegno nella propria professione e con il miglioramento continuo, per far sì che si instauri sempre tra l’uomo e le sue capacità, un rapporto onesto di dialogo e consapevolezza.