A proposito di web e violenza verbale
Libertà senza filtri
Nell’era della democrazia 2.0, la massima gaberiana “libertà è partecipazione” viene interpretata come diritto alla rissa, all’espressione della propria rabbia individualista per un piatto di “like”. Così sull’altare dell’effimero successo di un’idea (qualunque essa sia) viene sacrificato il senso di comunità
Una brutale prepotenza verbale dilaga sul web. È sotto gli occhi di tutti coloro che hanno qualche dimestichezza con le discussioni sui social. È rivolta innanzitutto contro gli immigrati e contro gli avversari politici, ma non risparmia nessuno. Ne parla su Repubblica Paolo Di Paolo (venerdì 21 luglio, ndr), con la solita acuta lucidità e con quella voglia di interrogarsi che poco lo accomuna con tanti altri scrittori italiani, piuttosto propensi a non guardare oltre il ristretto orizzonte dei fatti loro. Di Paolo si rivolge direttamente ad alcuni di questi facinorosi abitanti del web, ottenendo risposte in qualche modo altrettanto violente.
La partecipazione alla vita di un territorio ormai coincide, nel nostro paese, con prese di posizioni nette, irrevocabili, con la presunzione di avere in tasca la soluzione, di solito abbastanza banale, dinanzi a problematiche invece anche piuttosto complesse. Se “la libertà è partecipazione”, come cantava Gaber, la partecipazione finisce per corrispondere alla libertà di poter dire tutto. Alla domanda di Di Paolo se le sembrava giusto rivolgersi a un ipotetico profugo che aveva affermato di voler sgozzare decine di italiani (ma la notizia era una bufala), affermando che gli italiani gli avrebbero tagliato il membro e glielo avrebbero messo in bocca, prima di rimandarlo verso il suo “paesaccio”, una gentile signora ha risposto «ho il diritto di scrivere liberamente quello che penso».
I social in fondo hanno offerto questo al popolo del web: la possibilità di partecipare al bisticcio generale, la sensazione di offrire il proprio contributo alla causa comune, di partecipare appunto alla vita collettiva, manifestando rissosamente il proprio pensiero. L’importante non è dire qualcosa di sensato, ma gridare la propria rabbia, che è uguale semmai a quella di tanti altri, ma per arrivare ha bisogno di superare i limiti imposti dalle regole della convivenza. È quello che accade nelle trasmissioni televisive, che fanno audience quando la discussione degenera in scontro. È la ragione per cui un comico riciclatosi politico non parla ma urla. A partire dalle stesse premesse si spiega il ricorso forsennato, quasi ossessivo, alla battuta di spirito che sfocia nel dileggio contro l’avversario. In questo caso il colpo basso e la violenza verbale si vorrebbero giustificati dalla volontà di far ridere.
Sta di fatto che, tornando alle parole della signora dell’articolo di Di Paolo, il pensiero può essere libero, in quanto non lascia traccia di sé se non nella mente di chi l’ha pensato, le parole invece generano sempre conseguenze, se non altro perché possono essere ricordate da chi le ascolta. La traccia è ancora più profonda nei social, essendo in questo caso le parole generate proprio dalla volontà di lasciare traccia: i like, ad esempio.
Non fa solo paura la mancanza di solidarietà e di pietà, il disprezzo nei confronti di chi fugge da una violenza e da una miseria troppo grandi per essere accettabili, ma il bisogno di dirlo, il ricorso alle parole, la necessità di tradurre in slogan quelli che erano pensieri che fino a qualche anno fa si aveva vergogna a comunicare. Ecco, i social hanno prodotto l’effetto di considerare partecipazione alla vita sociale l’esternazione dei propri pensieri, hanno reso ambiguo il termine di comunità, hanno confuso il successo di un’idea con i “mi piace”.
La libertà è partecipazione, ma la partecipazione in certi casi consiste nello sconfinamento, può significare prendere parte alla rissa. Sempre più spesso si partecipa per far sentire la propria presenza contro qualcuno o qualcosa. È forse il risultato della democrazia del nuovo millennio, due punto zero, senza più filtri, ma con tante barriere.