Intervista al critico Antonio Di Grado
Anarchico Leopardi
«Una maggiore attenzione alla “disobbedienza” di Leopardi avrebbe potuto evitare molte aporie dell'anarchismo tradizionale. Come l'inguaribile ottimismo nei confronti della natura umana...»
Dopo la morte di Allende, Marquez affermò che «non è possibile cambiare la forma del mondo senza provocare terremoti della terra». Se a provocare ancora questi necessari terremoti possa o debba essere la parola culturale e la sua testimonianza, bisogna domandarlo a chi è chiamato a svolgere nella società una funzione intellettuale. Indagando più a fondo, tra notizie biografiche e scritti (volutamente?) meno noti si intuisce che il rapporto discordante che molti scrittori hanno avuto con le istituzioni del proprio tempo non era causato da ragioni ideologiche o, in tempi più recenti, partitiche: si è trattato, in tanti casi, di un dissenso libero, istintuale, quasi primitivo. “Anarchico”, magari, liberatosi dal pensiero di quegli intellettuali ancora capaci di non aderire ad alcuna concezione ideologica precostituita (quella del progresso come bene, ad esempio) o ritenuta da tutti, proprio perché mai mutata, immutabile.
Ho incontrato, a tal proposito, Antonio Di Grado, ordinario di Letteratura italiana all’Università di Catania, per anni Direttore scientifico della Fondazione “Leonardo Sciascia , studioso tra gli altri di Brancati, Vittorini, Fiore e De Roberto. Il professore si è occupato più volte, durante la sua carriera critica, del rapporto tra anarchia e letteratura, laddove per anarchia si intende la riluttanza innata dell’uomo libero alle prevaricazioni sociali, ed inoltre da poco ha curato per la casa editrice «Ad est dell’equatore», il libro Pensieri anarchici estratti e scelti dallo Zibaldone, una preziosa raccolta di riflessioni di Giacomo Leopardi che spaziano dalle responsabilità del cristianesimo sulla vita degli individui alla presunta anti-socialità dell’uomo, dal cosmopolitismo percepito come rischio al raggiungimento della felicità umana soltanto attraverso l’assenza di un governo.
La sua carriera di critico è iniziata con Elio Vittorini e, lo scorso anno, in occasione del cinquantenario dalla sua morte, è uscito “Vittorini a cavallo: vecchie e nuove congetture su un artigiano anarchico che fabbricava miti”. Chi era questo intellettuale anti-borghese, anti-provinciale, coraggioso scopritore di talenti?
Un leader carismatico, fin dai suoi vent’anni. Un mitografo, capace di convertire in “simboli per l’umana liberazione” gli “astratti furori” delle giovani generazioni che si avvicendarono dagli anni ’30 ai ’60 alla ribalta della scena letteraria e della battaglia delle idee. E disposto, perciò, a spendersi tutto nel presente, dando voce alle sue istanze più urgenti ma abbandonandole, quando non si rivelassero più vive, per nuove scommesse e nuove sfide. E dunque pronto a sposare un fascismo ribellistico e anti-borghese col culto iniziatico per la letteratura per poi aderire alla Resistenza e al comunismo con l’indipendenza intellettuale e la divulgazione onnivora del “Politecnico”. Per evocare, infine, una Sicilia arcaica e matriarcale con le sirene tecnologiche della modernità e delle avanguardie. Un anarchico, insomma, fin dal suo apprendistato d’adolescente nella bottega dell’anarchico siracusano Alfonso Failla. Cesare Pavese lo aspettava al varco dei “tempi lunghi”, oltre la contingenza della cronaca e dell’“impegno”, e perciò alla lunga confidava di batterlo: purtroppo sono stati sconfitti entrambi; e oggi siamo altrettanto lontani dal pensoso e accorato magistero dello scrittore langhigiano così come dagli azzardi ideologici e dalle coinvolgenti metafore di Elio Vittorini.
Veniamo ora al nuovo libro da lei curato intitolato “Pensieri anarchici” (libro in verità già pubblicato nel 1945 da Francesco Biondolillo e da lei riscoperto). Quanto è importante il lavoro di chi si occupa di letteratura, specie nel far riemergere opere sommerse o profili inediti di autori noti?
Parlare di un Leopardi “anarchico” non significa assoldarlo, anacronisticamente, nella schiera dei regicidi e dei cultori della “propaganda del fatto”, ma scovare nel folto della sua elaborazione teorica sentieri che altre figure di solitari e di ribelli percorreranno o incroceranno, con la medesima ostinata lucidità di antagonisti radicalmente critici dell’esistente, del millantato “progresso”, della bancarotta della “civiltà”. Siamo soliti guardare alle spalle degli autori, piuttosto che guardargli attorno: e perciò spiegare Leopardi alla luce del sensismo e del materialismo settecentesco, etc., come se la storia delle idee fosse una concatenazione di cause ed effetti. E trascuriamo quella galassia di fermenti che intorno a lui si andava formando, dal “socialismo utopistico” poi ingiustamente oltraggiato dai sacerdoti del socialismo sedicente “scientifico” al pensiero anarchico e ai teorici della “disobbedienza civile”, da Fourier a Proudhon, da Stirner a Blanqui, a Thoreau, etc. E da Leopardi quei disobbedienti e quegli utopisti avrebbero potuto ricavare più di un’idea per evitare quelle che saranno le più vistose aporie del pensiero anarchico, come l’inguaribile e infondato ottimismo sulla natura umana, che autorizzerebbe il sogno consociativo e l’obiettivo dell’autogestione. Aporie risolte, infatti, ab initio proprio dal Leopardi della Ginestra, che parte invece da un radicale pessimismo e dall’irrisione delle «magnifiche sorti e progressive» per approdare alla visione di «tutti fra sé confederati»; ma “confederati” non da altro collante se non da «quell’orror che primo / contra l’empia natura / strinse i mortali in social catena»: e magari corretto «da verace saper», da «giustizia e pietade». Solidarietà nel patimento, dunque, come quella invocata dal Plotino delle Operette («Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme […]; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita»). Solidarietà nell’avvertimento di quella «infinita vanità» che sembra discendere dal biblico Qohelet e che sola può finalmente affratellare un’umanità fatta dolorosamente consapevole. Vogliamo chiamarla “anarchia”? Possiamo pure, se a quel temibile marchio attribuiremo, piuttosto, la febbrile temperatura e l’impeto inerme di una dolente fraternità, di una debordante pietà. Resta il fatto che dal vasto mare dello Zibaldone emerge un Leopardi che, nei nostri tempi grevi di “pensiero unico”, svetta come maestro inascoltato di salutari dubbi e di radicale dissenso, verso ogni forma di costrizione istituzionale e di vincolo societario; e assertore dell’incoercibile libertà del singolo e della “naturale” uguaglianza del genere umano, ed estraneo e ribelle a ogni sudditanza a ideologie e istituzioni del suo come d’ogni tempo. E spettatore amaramente divertito dell’insana frenesia cui si dà il nome di “politica”.
Non è la prima volta che le sue ricerche si indirizzano sui nessi tra anarchia e scrittura: se n’è occupato appena due anni fa sempre con il volume “Anarchia come romanzo e come fede”, nel quale ha indagato, in una sorta di viaggio nel tempo, da Federico De Roberto a Simone Weil, da Leonardo Sciascia ad Albert Camus, la dimensione del dialogo tra uomo e società, tra potere e masse. Cos’è quest’anarchia a cui si riferisce e che esiti ha dato nella storia e nella letteratura?
È prima di tutto una scelta esistenziale, non “politica”: nel senso che non si identifica con nessun raggruppamento politico recante quel nome. È una scelta di inappartenenza, di estraneità, di radicale dissenso rispetto a un “mondo” che tutte le ideologie e gli schieramenti ritengono sostanzialmente immutabile, tutt’al più da rabberciare con parziali aggiustamenti. Come scrivevo in quel libro, «l’anarchico fa a meno delle istituzioni e si sottrae alle norme con la stessa grazia innocente con cui Francesco ad Assisi si spogliò delle vesti. È ovunque uno straniero, di ogni appartenenza e credenza si libera con lo stesso gesto agile e sprezzante con cui messer Guido Cavalcanti si liberò della molesta brigata. Fa il vuoto dentro e attorno come un mistico in estasi, anela al regno a venire come i mendicanti dello spirito delle Beatitudini, sfiora incontaminato il caos con la leggerezza di Ariel, balbetta parole incomprese di bellezza come il principe Myskin, l’“idiota” di Dostoevskij: «Se idiota, per questo mondo, vuol dire diverso e anzi discorde, difforme, inspiegabile, irrecuperabile, straniero». Quanto alla letteratura, ho osservato che due spettri atterriscono il borghese della seconda metà dell’Ottocento: l’adultera e l’anarchico. Entrambi esibiscono, nelle loro bandiere o sulle proprie carni, una “lettera scarlatta”: la A impressa sul petto di Hester Prynne e quella sventolante nei neri vessilli dei ribelli, dei libertari, dei regicidi. A come adulterio, A come anarchia. Ma se del primo si è detto e scritto tanto, e delle Bovary e Karenine che popolano quella letteratura, poco o nulla si è detto e scritto della seconda, e del rapporto intriso di sgomento e al tempo stesso di fascinazione che gli scrittori intrattennero con le idealità e le pratiche di Bakunin e Kropotkin, di Cafiero e Malatesta, e dei loro seguaci. Io ho tentato di farlo in quel libro, risalendo addirittura a un proto-anarchismo evangelico e poi ereticale.
Disse Camus, quando gli consegnarono il Nobel: «Personalmente non potrei vivere senza la mia arte, ma non l’ho mai posta al di sopra di tutto: se mi è necessaria, è invece perché non si estranea da nessuno e mi permette di vivere come sono al livello di tutti. L’arte non è ai miei occhi gioia solitaria: è invece un mezzo per commuovere il maggior numero di uomini offrendo loro un’immagine privilegiata delle sofferenze e delle gioie di tutti. L’arte obbliga dunque l’artista a non isolarsi e lo sottomette alla verità più umile e più universale. E spesso chi ha scelto il suo destino di artista perché si sentiva diverso dagli altri si accorge ben presto che potrà alimentare la sua arte e questo suo esser diverso solo confessando la sua somiglianza con tutti». Ho l’impressione, visti i suoi maggiori interessi critici, che lei sia d’accordo e che ami occuparsi di quegli scrittori pervasi dal senso di giustizia, di appartenenza al proprio tempo. Se la mia è un’intuizione giusta, perché?
E cos’altro insegniamo ai nostri studenti, se non la giustizia, la bellezza, la libertà, la fratellanza, la ricerca della verità, il rovello del dubbio? Cos’altro insegna, a loro e a noi, la letteratura? Sono lontanissimo sia da certi miei colleghi critici e teorici che intendono la letteratura come gioco o come menzogna, come svagata acrobazia intellettuale e mera ingegneria stilistica, sia dai colleghi storici abbarbicati all’illusoria oggettività del documento. A questi ultimi oppongo le verità “altre” e più profonde della letteratura, che smentisce la storia riscrivendola – al contrario di quanto loro predicano – con i “se” e con i “ma”, con i “chissà”, i “forse”, mirando a un “oltre” sempre più irraggiungibile ma per ciò stesso sempre più necessitante.
Nei tempi della fallimentare eppure persistente libertà iperindividualistica (per citare Bauman) come e dove può trovare la propria collocazione, un intellettuale del nostro tempo mosso da sentimenti simili a quelli appena elencati?
La figura dell’intellettuale, morti i Pasolini e gli Sciascia, si è probabilmente estinta. A meno che per intellettuale non s’intenda il propagandista d’una chiesa o d’un partito, d’un regime o d’una azienda; peggio: della grande Azienda tecnolatrica e telecratica che sta polverizzando, negli atenei come nei media, la cultura umanistica e il pensiero critico. E invece l’intellettuale, dal suo atto di nascita che risale al J’accuse di Zola (ma già la cultura russa aveva coniato la nozione di intelligencija), è altro: è l’uomo-contro, è l’apostolo e il martire del dubbio e del dissenso, della conoscenza come ricerca infinita e della comunicazione come spiazzante alterazione della prospettiva, come revoca in dubbio di certezze consolidate e verità di Palazzo. La sua dimora non va cercata, perciò, in una chiesa o in una lobby, in un partito o in un dipartimento o una consorteria universitari, ma sempre in partibus infidelium, in prossimità del rogo o dello scandalo, nel teatro di una coscienza tormentata dal rovello dell’autocritica, costretta a mettersi costantemente in discussione, a «contraddirsi» per «contraddire»: come non ricordare queste celebri – e abusatissime – parole di Sciascia? E come non affiancarle allo «scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te» esibito da Pasolini al cospetto delle ceneri di Gramsci?
Dove trovarli, oggi, gli “intellettuali”? In una politica che nella fanghiglia del presente ha offuscato le identità e le differenze, ha inquinato ogni anelito al mutamento? In una università ridotta ad azienda, svenduta al mercato, spossessata del pensiero critico, e dalle porte sbarrate alle nuove generazioni? In una cultura malamente “amministrata” da una politica che reclama questuanti e portaborse, invece di ritrarsi con pudore al cospetto di un libero pensiero che non vuole e non può essere “amministrato”? Forse non resta che la galassia sterminata e indeterminata del web, a raccogliere e disseminare le doléances dell’intellettuale; e a dissipare la funzione intellettuale là dove tutti sono promossi al rango di intellettuali, di opinion makers, di maîtres-à-penser: chissà che da questa torbida confusione dei linguaggi, da questa nuova Babele, non vengano fuori nuovi assetti partecipativi, nuovi valori e nuovi modi di trasmetterli.
Anarchia? Certo, e con tratti inquietanti, degni delle più terrificanti distopie. Ma anche anarchia come ricominciamento, come riformulazione dei valori e dei ruoli, come rinunzia a privilegi e strutture di un mondo che tutti – intellettuali, tecnici, politici e quant’altro – stiamo consegnando ai giovani nelle peggiori condizioni possibili.