La voce del poeta: Giuseppe Grattacaso
Poesia degli oggetti
Musicalità del ritmo e quotidianità del lessico, il lontano e il vicino che si legano in modo salvifico, come le stelle e i bicchieri della sua ultima raccolta. La poetica dell’autore salernitano si declina così, in una direzione che va alla ricerca del progetto della nostra esistenza
L’ultima raccolta poetica pubblicata da Giuseppe Grattacaso, nato a Salerno ma pistoiese di adozione, si intitola La vita dei bicchieri e delle stelle (112 pagine, 11 euro) ed è stata pubblicata da Campanotto nel 2013. La produzione di Grattacaso, molto frugale e parca, in linea con il personaggio schivo e appartato, annovera le raccolte Devozioni (1982) e Confidenze da un luogo familiare (2010), oltre alla plaquette Se fosse pronto un cielo (1991) che si avvale di uno scritto di Alessandro Parronchi. Insolito è il tema dell’ultima raccolta, elegantemente votata a descrivere «La vita dei bicchieri e delle stelle, / tutta gentile e tutta risplendente / brillante di gas elio o detergente».
Può parlarci della sua ultima raccolta?
Nel 2013 ho pubblicato La vita dei bicchieri e delle stelle, che raccoglie testi scritti in gran parte a cominciare dal 2010. Credo che la fisica del Novecento, in particolare offrendo una nuova immagine dell’universo, abbia cambiato il modo di intendere l’esistenza, ci abbia costretto anche a rivedere il senso della nostra presenza nel mondo. In ogni caso, più conosciamo l’universo, più lo sappiamo esteso: ne deriva che, paradossalmente, cresca anche la zona di cui sappiamo poco o nulla. Così gli oggetti che ci accompagnano nella nostra vita quotidiana, i bicchieri, le sedie, le lampadine, gli elettrodomestici, finiscono per essere una sorta di ancoraggio, ci offrono l’illusione che non siamo dispersi in un angolo remoto e insignificante dell’immensità, assumono un ruolo salvifico: possiamo collocarli secondo un certo criterio, ad esempio, e con questo credere che un ordine sia possibile, che da qualche parte esista un progetto che spieghi la nostra esistenza. Inoltre gli oggetti fanno parte delle nostre vite e rappresentano i nostri affetti molto di più di quanto siamo disposti a credere. Siamo capaci di affezionarci a una tazza, di arrabbiarci con una lavatrice. Il libro parla soprattutto di questo, del legame strano e indispensabile, tra il lontano e il vicino, tra le stelle appunto e i bicchieri.
Le poesie sono composte quasi interamente in endecasillabi, che però si sviluppano in un tono colloquiale, un registro volutamente tendente al basso. Mi piace molto quando la poesia crea un cortocircuito linguistico, per esempio tra musicalità del ritmo e quotidianità del lessico.
Lei vive e opera a Pistoia. Non ritiene che vivere al di fuori dei centri culturali importanti possa trasformarsi in un’opportunità per chi scrive?
Non saprei dire se si tratti di un’opportunità. Certo vivere in provincia può determinare maggiore concentrazione sulla scrittura, dare meno peso a questioni, per esempio di carattere editoriale, che sono più significative nei grandi centri, o almeno lo erano. Può spingere a uno sguardo disincantato. Ci sono però anche stimoli minori, un ambiente più chiuso, meno occasioni, bisogna lottare per farsi riconoscere.
Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
Stiamo vivendo sicuramente un periodo prolifico, con una produzione media di buon livello, a cui però non fa riscontro né interesse editoriale né attenzione critica, per cui il lettore non è messo nella condizione di distinguere e nemmeno di essere informato. Inoltre è venuto meno quel legame tra le generazioni che nel passato ha permesso di sviluppare un dibattito, ora invece praticamente assente. Per contro, c’è una maggiore volontà dei poeti di comunicare, in generale si fa uso di una lingua meno oscura, c’è bisogno di guardare in faccia i propri lettori e dunque si fa maggiore ricorso a incontri e reading.
Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
Il web è un grande strumento nelle mani di chi scrive poesia. Non sfruttarne le potenzialità è davvero un errore. I poeti più affermati usano poco questa opportunità, in molti considerano internet e i social come terreni nei quali viene compromessa la purezza dell’opera. Tutto questo produce effetti deleteri per la diffusione della poesia in generale, in quanto il web viene occupato da sedicenti scrittori, con molte velleità e poca sostanza, creando così confusione nei potenziali lettori. Comunque esistono riviste online di notevole pregio, esperienze estremamente significative, che hanno riscontri quantitativi di gran lunga superiori a quelli dei prodotti cartacei. Le recensioni e le poesie che vengono pubblicate attraverso canali web riconosciuti spesso ottengono un apprezzamento, anche in termini numerici, che non ha riscontro per quanto riguarda quotidiani e settimanali su carta. Io stesso da tempo curo un blog, contenuto nel mio sito (www.giuseppegrattacaso.it) che negli anni ha realizzato più di mezzo milione di visite. Forse se cominciassimo a guardare al web con minore ostilità, la diffusione della poesia ne trarrebbe giovamento.
Quali sono gli autori che hanno contribuito in maniera decisiva alla sua formazione?
Amo in particolare la poesia italiana del Novecento, un secolo per nulla breve, come invece ci si ostina a ripetere, che anzi allunga la sua influenza fino ai nostri giorni, almeno per quanto riguarda la produzione poetica, ma non solo. Gozzano è stato sempre un punto di riferimento, per il tono disincantato, lo scivolamento verso il basso, la capacità di nobilitare gli oggetti quotidiani, il senso del tempo che passa inesorabilmente eppure si ripropone con immagini e figure provenienti dal passato. E poi Sbarbaro, Saba, Montale, Penna, Caproni. Inoltre ho sentito sempre vicina la presenza di due poeti meridionali: Alfonso Gatto, salernitano come me, e Leonardo Sinisgalli, entrambi con una etichetta di ermetici che non li rappresenta per nulla. Di Sinisgalli mi interessa molto anche la riflessione teorica, la capacità di mettere insieme il ragionamento di carattere scientifico (era stato invitato da Fermi a entrare nell’istituto di Fisica di via Panisperna, sarà ingegnere e direttore del periodico Civiltà delle macchine) con l’ancestrale mondo contadino della sua Lucania. Mi piace molto quando la poesia si ciba di alimenti diversi. Questo vale anche per Leopardi (il padre di tutti i poeti citati in precedenza), che mette insieme lirismo e filosofia, poesia e scienza, linguaggio quotidiano e aulico, la “gallina” della Quiete dopo la tempesta abita nello stesso verso con gli “augelli”.
Lei è insegnante. Come valuta l’approccio dei ragazzi verso la poesia?
I ragazzi sono potenzialmente dei lettori ideali di poesia, interessati e curiosi, quelli di oggi sono portati a utilizzare un linguaggio che presenta caratteristiche proprie della lingua poetica. Ma la scuola fa passare l’idea (non solo la scuola, anche molti poeti) che la poesia sia per forze di cose difficile da interpretare, che sia un’esperienza ancorata al passato, che non possa essere letta ma solo studiata. Sarebbe invece opportuno che gli insegnanti di italiano leggessero appena possono poesie contemporanee ai propri allievi, scegliendole accuratamente, inizialmente senza commentarle. Avremmo allora molte sorprese. Il problema è che buona parte degli insegnanti non conosce la produzione poetica degli ultimi decenni. Il poeta statunitense Billy Collins utilizzò il suo ruolo di poeta laureato, conferitogli dal Congresso degli Stati Uniti dal 2001 al 2003, per realizzare il progetto Poetry 180, che prevede la scelta di una poesia contemporanea per ogni giorno di scuola. Ne ho parlato nel mio blog.
Cosa sta preparando attualmente?
Sto riguardando le cose scritte negli ultimi anni. È un lavoro che mi piace, anche se è molto faticoso. Spero possa venirne fuori presto una raccolta, che mi pare possa essere il terzo atto dopo Confidenze da un luogo familiare e La vita dei bicchieri e delle stelle, entrambi pubblicati da Campanotto. Credo di aver scritto soprattutto sul tempo, sull’impossibilità di coglierlo veramente, di ordinarlo in una sequenza esatta. Recentemente è andato in scena un mio testo teatrale, affidato all’interpretazione di Francesca Nerozzi e alla regia di Marco Zingaro. Il titolo è Parlavano di me, come il racconto da cui è tratto.
Può commentare la poesia inedita presentata?
Un anno fa è morto mio padre. Fare i conti con quest’assenza è ancora più doloroso e problematico, quando si è vissuti per tanti anni lontani. Mio padre abitava da solo. La sua casa ha continuato a esserci, a contenere oggetti e testimonianze di una vita, anche dopo la sua scomparsa. Ho scritto su questo alcune poesie.
***
Entra un sole violento stamattina,
deve essere così, nella tua stanza,
un sole senza umani è una violenza
dentro le case e le inaridisce,
perfino arriva a muovere le cose,
a farle crepitare d’abbandono,
a cancellare l’ombra dalla sedia
che si era accomodata al posto tuo.
Perciò chiedo perdono per l’assenza,
non esserci è un peccato, non potere
carezzare l’idea di un tuo ritorno,
fidare nel risveglio delle tazze,
delle stoviglie, le scodelle sane
e le sbreccate mettere al riparo,
abbassare con cura le persiane.
Giuseppe Grattacaso
(foto © Paola Becucci)