Catalogo del Novecento
Jack London filosofo
Jack London è uno scrittore scarno e cronachistico? Leggete "Martin Eden" e troverete un autore potente, capace di raccontare in anticipo il secolo delle (grandi) depressioni
John Griffith Chaney, conosciuto come Jack London, è l’estremo più estremo della letteratura americana, o quanto meno il primo tra gli estremi. Ebbe una vita alquanto movimentata, dal vagabondaggio giovanile, raccontato nel romanzo-diario La strada, al lavoro sulle navi, fu poi cacciatore di foche, corrispondente di guerra, cacciatore d’oro e avventuriero. Figlio illegittimo, fu allevato da una madre spiritista, da una nutrice nera e da un padre adottivo che non riuscì mai a realizzarsi negli affari. Ebbe un’adolescenza tormentata, dove non mancavano mai frequentazioni di banditi, personaggi poco raccomandabili e criminali, ma, nonostante questo, era un uomo di una sensibilità profondissima. Scrisse una quantità innumerevole di romanzi, racconti e saggi. S’ispirò per lo più agli scrittori russi (Dostoevskij in particolare), nei suoi romanzi non manca mai una visione filosofica complessa che va dal marxismo al superomismo nietzscheiano, passando per Spencer e Darwin. È per lo più considerato uno scrittore scarno e cronachistico ma di forte impatto emotivo: non sono del tutto d’accordo con questa lettura di London che, in romanzi come Martin Eden e Il vagabondo delle stelle, presenta invece un linguaggio molto vicino alla filosofia, molto vicino al linguaggio nietzscheiano, per intenderci.
Martin Eden è uno dei romanzi più belli della storia della letteratura di ogni tempo, fortemente autobiografico e, per certi versi, autoprofetico, fu pubblicato per la prima volta nel 1909.
È la storia del giovane proletario Martin, che entra a contatto, in modo del tutto fortuito, con il mondo della borghesia americana. La scena con cui si apre il romanzo è fenomenale, ovvero il momento in cui Martin, dopo aver salvato il giovane Arthur Morse da un’aggressione, viene invitato a casa di quest’ultimo e accadono due cose che si riveleranno per lui fondamentali: guarda l’immensa libreria e scopre i libri di Swinburne e conosce la sorella di Arthur, Ruth.
Poi si girò e vide la ragazza. E a quella vista la fantasmagoria di immagini nel suo cervello svanì. Era una pallida, evanescente creatura, con grandi, spirituali occhi blu e una massa di capelli dorati. Non vide com’era vestita, sapeva solo che il suo abito era meraviglioso come lei. La paragonò a un fiore color oro pallido, sostenuto da un esile stelo. No; lei era uno spirito, una divinità, una dea: una bellezza così spirituale non può appartenere alla terra. O forse i libri avevano ragione: c’erano molte donne come lei nei sentieri superiori della vita. Quel tipo, Swinburne, avrebbe certamente potuto cantarla. Forse, aveva in mente una come lei quando aveva descritto quella ragazza, Isotta, nel libro sul tavolo. Quella pletora di visioni e sentimenti e pensieri durò solo un istante, senza provocare interruzioni nella realtà in cui lui si muoveva. La vide tendergli la mano e guardarlo dritto negli occhi mentre gliela stringeva, con fermezza, come un uomo. Le donne che aveva conosciuto non stringevano la mano in quel modo, anzi, la maggior parte di loro non la stringeva affatto. Un’ondata di associazioni, visioni dei diversi modi nei quali aveva conosciuto altre donne, irruppe nella sua mente, minacciando di sommergerla. Ma lui se ne liberò e la guardò. Non aveva mai visto una donna simile. Le donne che aveva conosciuto! Subito, accanto a lui, a destra e a sinistra, si disposero le donne che Martin aveva incontrato. Per un eterno secondo si ritrovò nel mezzo di una galleria di ritratti dove Ruth occupava il posto centrale, mentre intorno a lei erano allineate molte donne, tutte destinate a essere pesate e misurate da un rapido sguardo; lei, l’unità di peso e di misura. Vide le facce deboli e malate delle ragazze delle fabbriche e le maliziose, sguaiate ragazze dei quartieri a sud di Market Street.c’erano le donne che frequentavano gli accampamenti dei mandriani e le donne dalla pelle scura del Vecchio Messico, che fumavano sigarette. Poi fu la volta delle giapponesi, bambole che camminavano affettatamente su piccoli zoccoli di legno, e poi delle eurasiatiche, dai tratti deboli, segnate dalla degenerazione della razza. Infine, apparvero le formose donne dalla pelle bruna delle isole dei Mari del Sud, incoronate di fiori. Tutte furono cancellate da un incubo grottesco e terribile, generato da sordidi ricordi; le creature striscianti dei marciapiedi di Whitechapel, vecchie streghe dei bordelli gonfie di gin e tutto il vasto seguito dell’inferno di arpie, volgari e luride, che predano i marinai sotto forma di femmine mostruose, avanzi dei porti, feccia e melma della più infima umanità.
(Jack London, Martin Eden, Frassinelli, 1997, pp. 7-8)
L’innamoramento per quest’ultima, unito all’amore che di lì a poco nascerà per la letteratura, lo spinge a voler diventare scrittore, ma non si tratta solo di questo, Martin vuole cambiare, vuole abbandonare le sue sembianze rozze per accedere all’idealizzato mondo borghese, rappresentato, nel massimo dell’idealizzazione, dalla figura di Ruth. Anche lei s’invaghisce di Martin ma cerca di negarlo a se stessa e soprattutto ai propri genitori, che la mettono in guardia sull’appartenenza e la provenienza del ragazzo, cercando di tenerlo quanto più possibile alla larga. Accade comunque qualcosa tra i due, la classica cotta adolescenziale, dove ci si scambiano furtivi baci di nascosto al resto del mondo. Martin nel frattempo vive in massima povertà e comincia a leggere forsennatamente e altrettanto forsennatamente a scrivere. Con la sua personalità intempestiva e febbrile, manda i suoi primi scritti agli editori e alle testate giornalistiche in voga all’epoca e non fa che collezionare rifiuti. Ruth, dal canto suo, cerca di dissuaderlo, gli dice che potrebbe aiutarlo a trovare un lavoro onesto, come ferroviere oppure nella ditta di suo padre. Martin è molto deluso dall’atteggiamento dell’oggetto di ogni suo desiderio, non riesce a credere che lei non possa scorgere in lui quel fuoco creativo che lo anima. È determinato in ogni caso a dimostrare il proprio valore, proprio mentre tutti glielo negano.
A causa di falsissimi articoli di giornale, che individuano in Martin Eden “il più noto leader socialista di Oakland”, “Il leader della minaccia organizzata contro la società”, e che lo dipingono, usando le parole del cognato Bernard Higginbotham, marito della sorella Gertrude, “un pigro, un buono a nulla, che non voleva adattarsi a un mestiere e che sarebbe finito male”, Ruth, si vergogna del suo innamorato, e lo lascia brutalmente. Martin ne è deluso e disperato.
Nel frattempo conosce un poeta socialista, Russ Brissenden, che sarà la sua vera fonte di cultura e ispirazione, suo unico amico, unico che scorga in lui un valore letterario e che desideri aiutarlo.
A un certo punto però, gli studi si fanno sempre più voraci e la scrittura anche, Martin comincia a riscontrare i primi successi, vede i primi racconti pubblicati, mentre si districa tra un lavoro e l’altro. Divertentissima la scena in cui Martin si reca personalmente da uno dei suoi editori per riscuotere la somma promessa e mai pagata e, passando alle maniere forti, vi riesce.
Così inizia un periodo di ascesa letteraria e sociale. Finalmente tutti coloro che l’hanno condannato e criticato ora lo stimano. La stessa Ruth si presenta da lui per riallacciare la relazione ma ormai Martin è troppo deluso da quel mondo che aveva idealizzato e la sua disillusione lo conduce a non far tesoro dei propri successi, a non vedere altro che bieca meschinità nell’universo sociale di cui è ormai entrato a far parte.
Così la conclusione, altro pezzo memorabile, forse il più bel finale della letteratura di ogni tempo: s’imbarca su una nave mercantile, sperando di salvarsi dalla profonda depressione che ormai l’ha invaso. Ormai è disgustato dall’umanità, tutta, e non riesce a star bene neppure solo con se stesso. Così si lascia cadere dalla barca, mettendo fine alla propria esistenza una volta per tutte, qui comprende ogni cosa, il senso unitario dell’esistenza, ma “nel momento stesso in cui lo seppe, smise di saperlo”.