Sabino Caronia
Una poesia per Primo Levi

Col coltello nel cuore

Il valore simbolico della scrittura dell'autore di “Se questo è un uomo”, in qualunque forma si sia espressa - narrativa, poetica e anche nel suo lavoro di traduttore di Kafka - è profondo e intatto. La sua forza ci paralizza e ci fa riflettere sul senso di vergogna già evocato da Josef K

A trent’anni dalla morte la scrittura di Primo Levi ha sempre un profondo valore simbolico. Ricordate il sogno pieno di spavento descritto alla fine de La tregua? Primo Levi comincia a farlo appena tornato a casa dal campo di concentramento di Auschwitz, alla fine della guerra. Gli pare di trovarsi in mezzo a persone care, a tavola o al lavoro o in campagna. Ma poi tutto cade e si disfa. Ben presto, intorno a lui, è il caos, un gran nulla grigio e torbido. La conclusione ci paralizza il cuore: «Sono di nuovo in Lager, e tutto era vero all’infuori del Lager. Il resto, era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa».

In una celebre pagina di Se non ora quando? (1982), al compagno di lotta partigiana che rivolge al protagonista la domanda: «E tu, ebreo: quanti tedeschi hai ammazzati?», quello risponde: «Non lo so,… io ero in artiglieria… si piazza il pezzo, si punta, si spara… Chi lo sa, quanti ne sono morti per mano mia? Forse mille, forse neanche uno… Ma al mio paese i tedeschi hanno fatto scavare una fossa dagli ebrei, e poi li hanno messi in piedi sull’orlo, e li hanno fucilati tutti, anche i bambini, e anche parecchi cristiani che nascondevano gli ebrei, e fra i fucilati c’era mia moglie. E dopo di allora io penso che uccidere sia brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno… perché uccidere è il solo linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo più di lui: è la sua logica, capisci, non la mia… È importante, ma è anche orribile; solo se io uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo. Eppure noi abbiamo una legge, che dice “Non uccidere”».

Sono gli anni in cui Levi pubblica presso Einaudi la sua traduzione del Processo (1983). Nell’incipit della nota premessa al volume si legge: «La lettura del Processo, libro saturo d’infelicità e di poesia, lascia mutati: più tristi e più consapevoli di prima. Dunque è così, è questo il destino umano, si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che “il tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». In uno scritto del 5 giugno 1983, Tradurre Kafka, dopo aver osservato che Kafka scrive in un modo opposto al suo, un modo che gli è «totalmente precluso», a proposito della famosa e commentatissima frase che chiude il libro come una pietra tombale («E fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere»), scrive: «Josef K., alla fine del suo angoscioso itinerario, prova vergogna perché esiste questo tribunale occulto e corrotto, che pervade tutto quanto lo circonda… È finalmente un tribunale umano, non divino: è fatto di uomini e dagli uomini, e Josef, col coltello già piantato nel cuore, prova vergogna di essere un uomo».

Ad ora incerta si intitola la raccolta delle poesie (1984). È un canzoniere non nel senso di Petrarca ma in quello di Saba, una raccolta in cui i componimenti sono disposti in ordine cronologico. «Chi non ha mai scritto versi?» si chiede il poeta nella breve introduzione «Anch’io ad intervalli, “ad ora incerta”, ho ceduto alla spinta». Vorrei segnalare accanto ai versi fin troppo noti di Shema, Alzarsi, Il canto del corvo e Il superstite, le belle e intense poesie d’amore, da 11 febbraio 1947 («Cercavo te nelle stelle…») a quel 12 luglio 1980 («Non è più tempo di vivere soli. / Accetta per favore questi 14 versi») che richiama il precedente, Da R.M. Rilke, mirabile traduzione dal Libro delle ore («È giunto il tempo di non esser soli»).

«Continueranno il loro corso / solo stelle pianeti e comete» scriverà nella sua ultima poesia pubblicata in «Almanacco» del 2 gennaio 1987, «Anche la Terra temerà le leggi / immutabili del creato. / Noi no. Noi propaggine ribelle / di molto ingegno e poco senno, / distruggeremo e corromperemo /sempre più in fretta».

In appendice al presente articolo mi piace pubblicare una mia poesia dedicata a Primo Levi in occasione del trentennale della morte:

No, non mi fa paura la vecchiaia,

                                   mi fa paura l’altrui giovinezza

                                   con quel che di famelico comporta.

 

                                  Mi fa paura l’essere con loro,

                                   e mi vergogno d’usurpare il posto

                                   di tanti certo assai di me più degni.

 

                                   I sommersi e i salvati, la coscienza

                                   d’essere vivi in un mondo di morti,

                                   di questo veramente mi vergogno.

 

                                     Di cosa si vergogna Josef K .?                                                                                    

                                     Di cosa si vergogna l’innocente

                                     col coltello piantato già nel cuore?

                        

                                     Del tribunale occulto? Della colpa

                                     ignota, inconsapevole? Di cosa?

                                     Forse d ‘essere un uomo si vergogna.

 

Sabino Caronia

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