La mostra a Villa Medici
Lettera a Yoko Ono
Roma rende omaggio a Yoko Ono esponendo una serie di opere degli anni Sessanta dedicate alla libertà, all'ansia e alla libertà dall'ansia. L'occasione giusta per fare i conti con una memoria sbagliata...
Cara Yoko Ono, voglio chiederti scusa. Perdono per averti disprezzato come molti altri della mia generazione. Averti accusato di ogni infamia, convinto che la tua turbolenta storia con John Lennon avesse accelerato lo scioglimento dei Beatles, portandoci via un sogno. Precipitando lui e noi verso l’inesorabile fine dell’adolescenza. Un destino che era già in agguato per i magnifici quattro della band, perché era il mondo che si stava allontanando da loro verso altri tempi meno innocenti, verso altre icone, altri miti, altre follie più crudeli. Crudeli come quella che nel 1980 al Central Park impugnò la pistola che avrebbe stroncato la vita di John.
Ma questo lo avremo capito solo dopo. Quando ci siamo rassegnati a vederti calcare da sola la scena. E abbiamo cominciato a vederti per l’artista che eri. E che sei. Non più soltanto quella capellona bruttina che con pessimo gusto osava posare nuda con lui, che non era certo un Adone, ma con le sue canzoni ci trasmetteva vibrazioni da Dio. Certo magari, ci hai un po’ marciato – alzi la mano chi non l’avrebbe fatto – sfruttandone la scia per arrivare alla fama. Ma era un’attenzione che meritavi, non importa se eri più o meno brava di quel tuo compagno di strada con cui hai condiviso un decennio di amori e separazioni, colpi di testa e passioni.
L’ho capito da adulto guardando le tue performances in vari musei del mondo. E ne trovo piena conferma in questa piccola mostra con cui Villa Medici ti rende omaggio. In contumacia perché a 84 anni compiuti sei troppo acciaccata e malmessa per poter raggiungere a Roma le opere che hanno scelto a rappresentarti. O forse troppo saggia per cercare ancora l’applauso.
Il tempo è impietoso, ma ti rende giustizia. Basta uno sguardo all’istallazione che hai riproposto ad aprire il percorso. Datata primi anni Sessanta, quando il tuo sodalizio con quel Beatle occhialuto non era ancora iniziato, e tu, nel solco di libera e anarchica creatività del gruppo Fluxus e delle esperienze pilota con la tv di Naum June Paik, piazzasti una telecamera sul tetto per inondare con uno spicchio di cielo il tuo buio studio di Manhattan. E moltiplicare l’emozione catturando ed esponendo quelle immagini su più file di monitor. Un colpo d’ala d’artista che, seguendo le tue istruzioni, la curatrice della mostra, Chiara Parisi, ha ricostruito qui in questa antica villa sul Pincio disegnata come una fortezza, piazzando una camera accesa ventiquattro ore e untata verso il cielo e fasciando le pareti della sala d’ingresso con una lunga banda di schermi. Punti d’evasione e di fuga.
Certo, ti ha aiutato la bella giornata. L’aria tersa di questo maggio romano, dipinta di celeste e vivi sprazzi di sole che fa da fondale al passare di piccole mandrie di nuvole. Magari col buio l’effetto si attenua, anche se resta l’idea forte di spiare il tempo che scorre. Ma che incanto quelle finestre d’infinito che incorniciano il morbido sfioccare delle nubi. Lo spettacolo di quell’incessante perdere e prendere forma che condensa il mistero dell ’arte e i prodigi della Natura. E libera l’immaginazione.
Già la fantasia complice di chi guarda e riempie ogni volta di senso la vista. È il segreto sempreverde delle tue invenzioni che non ricorrono a trucchi ed effetti speciali, ma operano per sottrazioni. Semplice come quel mosaico di riquadri bianchi appeso al muro su cui ha iscritto un campionario di parole guida, tradotte per l’occasione in italiano. Voci verbali declinate in un presente che diventa un imperativo. Senti, immagina, sogna, apri, vola, ricorda (scritto al minuscolo e tra parentesi a scongiurare sterili botte di nostalgia). E in fondo lo scarto di un perentorio Sì: da sussurrare a bassa voce o da urlare come un monito, uno slogan?
Brava Yoko: la tua proposta di gioco trascina il pubblico, ognuno sceglie la pista che preferisce e si lancia, si lascia andare. La parola e il pensiero non più come prigioni logorate dall’uso e dall’abuso, ma strade da attraversare verso un chissà, l’arte ridotta al suo grado zero che pure scava in profondità. Semplice la provocazione di quel video che scorre su un grande schermo piazzato sulla sommità dello scalone. Inquadra un busto di donna che abbassa le mani sul reggiseno, accenna a slacciarlo. La libertà riassunta in un gesto che non taglia il traguardo. A noi completare, se ci va, quella promessa di nudità. Semplice la magia ricreata in un’altra stanza: segni e scritte sui muri che invitano ad una sorta di viaggio, costellate da pause di introspezione. Suggerite, mai imposte.
Ancor più brava Yoko per quella scacchiera gigante che hai fatto adagiare all’esterno sotto il piccolo obelisco egizio che si alza come una meridiana al centro del giardino. Tutti i pezzi, torri, re, regine, alfieri, torri, pedoni, sono bianchi. Quando si saranno sparsi sulle caselle sarà impossibile stabilire a chi appartengono. Una partita che cancella ogni ansia di vincere o di essere sconfitti. Una pura lezione zen questo andare senza aver direzione. Sono tutte opere degli anni Sessanta, vengono da un mondo di mezzo secolo fa, ma conservano la freschezza miracolosa di fiori non appassiti. Fanno sentire anche noi molto più giovani. Ci riesci anche tu Yoko Ono, non solo le melodie graffiate dei Beatles che portano su anche un rigurgito di rimpianto.
Peccato che il copione di questa mostra associ le tue opere a quelle di una pittrice francese Claire Tabouret. Molto più scontrosa e superba di te, cara Yoko. Ritratti di donne tracciati con sicuro gusto figurativo ma scarsa originalità: già visto quell’uso del colore, quei volti mascherati, le labbra sbafate, o avvolti in una foschia blu che ricorda il Picasso giovane. Certo due modi di rileggere la condizione femminile. Ma il contrappunto di questa artista appena quarantenne è ingabbiato da un senso d’inquietudine che guida verso direzioni obbligate.